Papaveri rossi: presagio d’estate. Ma mille papaveri rossi richiamano anche un’altra cosa. Chi non ricorda?
«Non è una rosa, non è un tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi…».
Era una celebra canzone contro la guerra di Fabrizio De André, mitico cantautore degli anni Sessanta: «La guerra di Piero».
La canzone QUI.
Il testo proseguiva:
«E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato…
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi».
Questa immagine di mille papaveri rossi mi è sempre rimasta in mente come segno di desiderio di pace della gente semplice e dei manovali della guerra, al di là dei giochi politici e di potere.
Ma De André non è l’unico ad avere espresso i pensieri ingenui di un soldato che sente l’affinità col nemico, al di là delle parti – ingenui, perché sarà questa umanissima esitazione che lo porterà a cadere sotto il fuoco dell’altro, spaventato e bisognoso di pace quanto lui. C’è un racconto lampo che è un classico della fantascienza, «Sentinella» di Fredric Brown (1954), e che esprime in modo sorprendentemente simile il comune sentire di due nemici.
«Sentinella»
«Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni‐luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d’anni, quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo dannato pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie. Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto.
Lontano 50mila anni‐luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame…».
Fredric Brown, Cosmolinea B-2, Biblioteca di Urania n. 12, Mondadori 1983, p. 360.
Chi è nemico di chi?
Questo brusco ribaltamento di situazione fa scoprire a chi legge che la sentinella che nutre sentimenti così umani, affamata, gelata, spaventata, esausta, è la creatura non-umana, un alieno con scaglie e tentacoli, ed è il nemico ucciso, il mostro schifoso, crudele e ripugnante, ad avere le stesse fattezze del lettore.
Il grano e i papaveri, che rinascono ogni anno, rappresentano in fondo una speranza di vita. In questo tempo di guerre che ci coinvolgono così da vicino, non posso fare a meno di pensare alle persone che soffrono nei diversi schieramenti, e che forse non vorrebbero altro, tutte quante – soldati compresi -, che la pace.
E qui, mutatis mutandis, il pensiero mi va ad un altro testo, questa volta di buona letteratura italiana, una poesia che Giuseppe Giusti scrisse nel contesto delle guerre risorgimentali, quando il nemico – per gli italiani – era l’esercito austriaco, formato anche da tanti soldati dei paesi soggetti, «come sarebbe Boemi e Croati». Ecco lo scherzetto che il linguaggio universale della musica gioca al poeta patriota nei confronti dei «nemici». Noterete, sotto il tono leggero, un forte senso di umanità:
«Un cantico tedesco lento lento
Per l’äer sacro a Dio mosse le penne:
Era preghiera, e mi parea lamento,
60 D’un suono grave, flebile, solenne,
Tal, che sempre nell’anima lo sento:
E mi stupisco che in quelle cotenne,
In que’ fantocci esotici di legno,
64 Potesse l’armonia fino a quel segno.
Sentía nell’inno la dolcezza amara
De’ canti uditi da fanciullo: il core
Che da voce domestica gl’impara,
68 Ce li ripete i giorni del dolore:
Un pensier mesto della madre cara,
Un desiderio di pace e d’amore,
Uno sgomento di lontano esilio,
72 Che mi faceva andare in visibilio.
E quando tacque, mi lasciò pensoso
Di pensieri più forti e più soavi.
Costor, dicea tra me, Re pauroso
76 Degl’italici moti e degli slavi,
Strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo
Schiavi gli spinge per tenerci schiavi;
Gli spinge di Croazia e di Boemme,
80 Come mandre a svernar nelle Maremme.
A dura vita, a dura disciplina,
Muti, derisi, solitari stanno,
Strumenti ciechi d’occhiuta rapina
84 Che lor non tocca e che forse non sanno:
E quest’odio che mai non avvicina
Il popolo lombardo all’alemanno,
Giova a chi regna dividendo, e teme
88 Popoli avversi affratellati insieme.
Povera gente! lontana da’ suoi,
In un paese qui che le vuol male,
Chi sa che in fondo all’anima po’ poi
92 Non mandi a quel paese il principale!
Gioco che l’hanno in tasca come noi.
Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,
Colla su’ brava mazza di nocciuolo,
96 Duro e piantato lì come un piolo».