Lettura continua della Bibbia. Il discorso missionario in Matteo (10,5-42)

Matteo: discorso missionario
Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay

Matteo amplia notevolmente il discorso missionario di Mc 6,7-11, mentre lo limita al solo Israele: «Non prendete la via delle genti e non entrate in una città di samaritani». Qui non si tratta però di esclusivismo, cioè di una volontà di salvezza solo per Israele. Si tratta invece della descrizione del ministero storico di Gesù e dei primi discepoli, rivolto essenzialmente alle «pecore perdute della casa d’Israele» (15,24).

La missione inizia dai Dodici, e i destinatari immediati di questa sono i figli di Israele, mentre la missione fra i samaritani e i pagani verrà solo in seguito. Sarà la Chiesa, poi, ad estendere il Vangelo a tutto il mondo.

Gesù delinea i caratteri fondamentali di questa missione:

  • La predicazione dell’avvento del Regno
  • I gesti caritativi (qui, taumaturgici) verso gli infermi, gli ossessi, i defunti
  • La gratuità assoluta della missione
  • La sobrietà dei mezzi, nella fiducia che Dio – e la comunità – provvederà al sostentamento dell’inviato: non si deve passare di casa in casa cercando la sistemazione migliore, ma accontentarsi di essere ospitati da persone degne
  • Portare pace, come pecore in mezzo ai lupi
  • Prudenza nell’azione: la semplicità delle colombe si deve sposare con l’intelligenza del serpente, che biblicamente è l’animale più astuto. L’esperienza della grazia di Dio unifica il cuore che altrimenti resterebbe diviso, «doppio», inautentico – questo significa nella Bibbia essere semplici, non rozzi né ignoranti.

Semplici come colombe…

Non occorre, quindi, temere di divenire, come il Maestro, segni di contraddizione, andando incontro anche a contrarietà e resistenze.

… prudenti come serpenti

Ma occorre guardarsi dagli estremismi ingiustificati. La franchezza evangelica è agli antipodi del fanatismo e richiede discernimento e discrezione.

La persecuzione (Mt 10,17-23)

Santo Stefano primo martire. No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42069718

Non è facile il mondo in cui il cristiano è mandato. Le istruzioni sulla missione sono seguite da ammonimenti sulle future persecuzioni: come il Cristo, anche i missionari saranno consegnati. La menzione di sinedri, sinagoghe (autorità giudaiche), governatori e re (autorità pagane, ovvero il procuratore romano e i partigiani del re Erode) delimita ancora l’azione missionaria alla Palestina.

Ma non c’è bisogno di angustiarsi: non è la scelta umana delle parole a difendere il Vangelo davanti al persecutore, ma lo Spirito del Padre. Essere missionari è essere martiri cioè testimoni fino alla fine o meglio fino alla pienezza totale, il fine (eis télos).

Questo non significa che si debba cercare imprudentemente il pericolo e la morte. Il tempo per la missione non mancherà: la missione apostolica durerà in Israele quanto durerà il mondo.

Il discepolo (10,24-42)

Matteo: discorso missionario
Foto di CCXpistiavos da Pixabay 

Il discepolo non è maggiore del suo maestro, il servo non è maggiore del Signore. Se hanno perseguitato il Maestro e il Signore, non saranno perseguitati i suoi servi, i suoi discepoli, i suoi amici?

Gesù è stato addirittura chiamato Belzebù: Ba‘al zebul, il Padrone del palazzo, è una divinità pagana identificata con il demonio e ridicolizzata trasformandola in Ba‘al zebub, il Signore delle mosche. Tanto più saranno disprezzati i suoi domestici.

Non sono gli uomini da temere, ma Dio

Questa è la premessa; la conseguenza è che il discepolo non deve aver timore di evangelizzare perché la verità intima del Vangelo deve essere proclamata a tutti. Il Padre celeste, che ha cura delle più piccole delle sue creature e che conosce persino il numero dei capelli del nostro capo, a maggior ragione avrà cura di ciascuno di noi.

Non sono dunque gli uomini da temere, ma Dio: gli uomini possono tutt’al più uccidere il corpo, soltanto Dio potrebbe lasciar andare in perdizione e corpo e anima nell’inferno.

Come si spiega l’inferno?

Il nome usato per indicare l’inferno è «Geenna», dal nome della valle di Ge Hinnon dove anticamente venivano consumati dal fuoco sacrifici umani e dove più recentemente si bruciavano, in un fuoco che non si spegneva mai, i rifiuti. È l’immagine simbolica di una perdizione in cui l’anima non trova Dio perché non lo vuole.

Secondo C.S. Lewis, il motto dell’inferno è «Io sono mio». La scelta definitiva del proprio Ego anziché dell’amore pietrifica l’uomo in una chiusura che non lascia più spazio alla Misericordia.

La misericordia universale di Dio è evidente, ma esigente: chiede una risposta radicale. La tolleranza odierna tende a confondere la misericordia col buonismo, la carità con il lassismo. La sequela richiesta al cristiano è drastica e pretende coraggio: rinnegare Gesù è rinnegare se stessi, impedire di riconoscerci in lui.

Drasticità del Vangelo

La parola del Vangelo è fuoco e fermento, crea divisione se necessario, persino tra i familiari. Il fuoco e la spada con cui il Vangelo sconvolge la storia non sono il conflitto dovuto all’odio, ma la radicalità dovuta all’amore: un amore così grande che deve superare anche quello naturale, il vincolo di sangue. Ossia, richiede di passare dall’amore umano (philia) alla carità divina (agape). E questa radicalità è così drastica che comporta persino il passare per la croce: per la prima volta si menziona lo stauros che i romani chiamavano furca, qui ancora nel senso generico di supplizio.

Questo amore supera l’attaccamento agli affetti familiari e supera anche l’attaccamento alla propria vita. Infatti la vera perdita non è quella della vita fisica, ma quella della vita spirituale. Per salvare la vita vera, si può anche passare attraverso la perdita dell’esistenza terrena. Questo detto di Gesù, «Chi trova la sua vita la perderà…», è il più citato nei Vangeli in cui ricorre ben sei volte, quindi è quello che meglio di altri ne caratterizza l’insegnamento.

Il martirio quotidiano

Al discepolo è chiesta dunque una ferma risposta di fronte alla croce, ma non pensiamo che si tratti solo del grande martirio, del gesto eroico. Difficoltà, stanchezze, fallimenti, umiliazioni, mancanza di risultati visibili sono all’ordine del giorno e ogni giorno interpellano la nostra fedeltà. La via della croce è anche la piccola via di S. Teresa di Lisieux, dove la grandezza dell’anima è fatta delle cose più piccole che si possano immaginare: «Raccattare una spilla per amore può convertire un’anima», diceva. Lo spillo è quanto di più piccolo, tra gli utensili, esista; è con grande concretezza che la piccola Santa, dottore della Chiesa, ammonisce: «Prima di morire troncate dalla spada, facciamoci uccidere a colpi di spillo…».

La vita non è frutto di rapina ma dono: solo donandola si può ottenere. Chi si dona si identifica col Cristo e merita la stessa ricompensa. «Piccoli» sono i discepoli di fronte alla grandezza del mondo; chi li accoglierà anche solo con un bicchiere di acqua («fresca», precisa Matteo che pensa al clima torrido della Palestina) avrà accolto il Signore in persona, e ne avrà la sua rimunerazione.

Anche se i gesti di carità non sono fatti per avere un premio, ma sono disinteressati, ottengono ugualmente la felicità di chi li compie, perché realizzano la vita nel modo più autentico.