Il Discorso missionario (Matteo 10)

Matteo: Discorso missionario
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Il mandato dei Dodici nasce dalla preghiera: «Pregate dunque il Padrone della messe perché mandi operai nella sua messe» (9,38). È questo, nel vangelo secondo Matteo, il contesto del discorso missionario di Gesù, che inizia con la scelta dei Dodici.

Non basta andare, bisogna essere mandati in spirito di preghiera perché è il Signore che dà il seme e lo fa crescere, e il campo di spighe pronto per la mietitura poco deve agli operai che lo devono mietere col lieto annunzio della salvezza. E se gli operai scarseggiano, e le spighe mature non vengono raccolte, forse è perché la Chiesa non prega abbastanza…

I Dodici (10,1-4)

Matteo: i Dodici
I Dodici. 1390 circa. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=77763822

Gli apostoli (ebraico shelichim, greco apostoloi) sono missionari dotati della stessa autorità di Colui che li ha inviati secondo il principio rabbinico «L’inviato è uguale a chi lo invia» ovvero lo rappresenta fisicamente.

La lista

Inomi dei dodici inviati sono gli stessi in tutte le liste, con alcune differenze. In tutte le liste Pietro è il primo e Giuda è l’ultimo.

Shimom / Simone significa «ha ascoltato», e proprio perché ascoltapuò parlare. Solo Matteo qualifica Pietro come il protos / primo, non in senso cronologico ma autoritativo: è un tema che gli è caro.

L’appellativo Cananeo dell’altro Simone, dall’ebraico qanaj / geloso, zelante, zelota, ne denota l’appartenenza al movimento armato di resistenza contro i romani.

Andrea (Virile) e Filippo (amico dei cavalli) sono gli unici nomi greci, gli altri sono tutti ebraici: Jochanan / Giovanni (Il Signore ha fatto grazia), Jacob / Giacomo di Zebedeo e di Alfeo (Soppiantatore, ma è il nome del patriarca padre del popolo di Israele), Bar Talmaj / Bartolomeo (soprannome, Figlio del solco), Tommaso (soprannome, Gemello), Mattaj / Matteo (Dono del Signore), Taddeo (colui che loda, significato simile a quello del nome Jehuda / lodato, e infatti da Lc 6,16 viene chiamato Giuda di Giacomo).

GIUDA ISCARIOTA

Giuda Iscariota porta il nome illustre del patriarca eponimo della sua tribù; il soprannome deriva probabilmente dal nome di provenienza ish Qerioth / uomo di Qerioth, villaggio del Neghev. Meno probabilmente è una corruzione del latino sicarius che designava una frangia estrema del movimento zelota (la sica è il pugnale). Più suggestivo che derivi da ish qarja’ / «uomo falso», che potrebbe essere un appellativo tradizionale guadagnatosi con il ruolo giocato negli eventi della passione. Di Giuda, il narratore ha già anticipato che tradì Gesù; cominciamo però a notare che il verbo paradidomi, come il latino tradere, non significa tradire ma consegnare, come vedremo.

Le colonne della Chiesa

Siamo informati per ora, dall’evangelista, del nome dei Dodici, e poi ne scopriremo particolarità, slanci e scarsezza di fede, zelo emotivo e tradimento.

Sono dodici storie di persone come noi con le loro aspirazioni e le loro fragilità concrete, cui è affidato il cammino del Regno ormai in atto. La lista dei Dodici ci ricorda appunto le coordinate storiche del cammino di salvezza affidato alla voce, alle mani, alle gambe degli uomini. La loro funzione, che si situa all’origine della successione apostolica e perciò del ministero episcopale, ha un ruolo irripetibile nella storia della cristianità, quella di fondazione della Chiesa di cui i Dodici sono le colonne (cfr. Gal 2,9; Ap 21,14): ruolo che deriva loro dall’aver vissuto il ministero di Gesù stando con lui dal battesimo di Giovanni all’Ascensione (At 1,21-22).

Il Discorso missionario

Matteo: Discorso missionario
Gesù manda i discepoli. Bible Card, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10010860

Matteo amplia notevolmente il discorso missionario di Mc 6,7-11, mentre lo limita al solo Israele: «Non prendete la via delle genti e non entrate in una città di samaritani». Qui non si tratta però di esclusivismo, cioè di una volontà di salvezza solo per Israele. Si tratta invece della descrizione del ministero storico di Gesù e dei primi discepoli, rivolto essenzialmente alle «pecore perdute della casa d’Israele» (15,24).

La missione inizia dai Dodici, e i destinatari immediati di questa sono i figli di Israele, mentre la missione fra i samaritani e i pagani verrà solo in seguito. Sarà la Chiesa, poi, ad estendere il Vangelo a tutto il mondo.

Gesù delinea i caratteri fondamentali di questa missione:

  • La predicazione dell’avvento del Regno
  • I gesti caritativi (qui, taumaturgici) verso gli infermi, gli ossessi, i defunti
  • La gratuità assoluta della missione
  • La sobrietà dei mezzi, nella fiducia che Dio – e la comunità – provvederà al sostentamento dell’inviato: non si deve passare di casa in casa cercando la sistemazione migliore, ma accontentarsi di essere ospitati da persone degne
  • Portare pace, come pecore in mezzo ai lupi
  • Prudenza nell’azione: la semplicità delle colombe si deve sposare con l’intelligenza del serpente, che biblicamente è l’animale più astuto. L’esperienza della grazia di Dio unifica il cuore che altrimenti resterebbe diviso, «doppio», inautentico – questo significa nella Bibbia essere semplici, non rozzi né ignoranti.

Semplici come colombe…

Non occorre, quindi, temere di divenire, come il Maestro, segni di contraddizione, andando incontro anche a contrarietà e resistenze.

… prudenti come serpenti

Ma occorre guardarsi dagli estremismi ingiustificati. La franchezza evangelica è agli antipodi del fanatismo e richiede discernimento e discrezione.

La persecuzione (Mt 10,17-23)

Santo Stefano primo martire. No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42069718

Non è facile il mondo in cui il cristiano è mandato. Le istruzioni sulla missione sono seguite da ammonimenti sulle future persecuzioni: come il Cristo, anche i missionari saranno consegnati. La menzione di sinedri, sinagoghe (autorità giudaiche), governatori e re (autorità pagane, ovvero il procuratore romano e i partigiani del re Erode) delimita ancora l’azione missionaria alla Palestina.

Ma non c’è bisogno di angustiarsi: non è la scelta umana delle parole a difendere il Vangelo davanti al persecutore, ma lo Spirito del Padre. Essere missionari è essere martiri cioè testimoni fino alla fine o meglio fino alla pienezza totale, il fine (eis télos).

Questo non significa che si debba cercare imprudentemente il pericolo e la morte. Il tempo per la missione non mancherà: la missione apostolica durerà in Israele quanto durerà il mondo.

Il discepolo (10,24-42)

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Il discepolo non è maggiore del suo maestro, il servo non è maggiore del Signore. Se hanno perseguitato il Maestro e il Signore, non saranno perseguitati i suoi servi, i suoi discepoli, i suoi amici?

Gesù è stato addirittura chiamato Belzebù: Ba‘al zebul, il Padrone del palazzo, è una divinità pagana identificata con il demonio e ridicolizzata trasformandola in Ba‘al zebub, il Signore delle mosche. Tanto più saranno disprezzati i suoi domestici.

Non sono gli uomini da temere, ma Dio

Questa è la premessa; la conseguenza è che il discepolo non deve aver timore di evangelizzare perché la verità intima del Vangelo deve essere proclamata a tutti. Il Padre celeste, che ha cura delle più piccole delle sue creature e che conosce persino il numero dei capelli del nostro capo, a maggior ragione avrà cura di ciascuno di noi.

Non sono dunque gli uomini da temere, ma Dio: gli uomini possono tutt’al più uccidere il corpo, soltanto Dio potrebbe lasciar andare in perdizione e corpo e anima nell’inferno.

Come si spiega l’inferno?

Il nome usato per indicare l’inferno è «Geenna», dal nome della valle di Ge Hinnon dove anticamente venivano consumati dal fuoco sacrifici umani e dove più recentemente si bruciavano, in un fuoco che non si spegneva mai, i rifiuti. È l’immagine simbolica di una perdizione in cui l’anima non trova Dio perché non lo vuole.

Secondo C.S. Lewis, il motto dell’inferno è «Io sono mio». La scelta definitiva del proprio Ego anziché dell’amore pietrifica l’uomo in una chiusura che non lascia più spazio alla Misericordia.

La misericordia universale di Dio è evidente, ma esigente: chiede una risposta radicale. La tolleranza odierna tende a confondere la misericordia col buonismo, la carità con il lassismo. La sequela richiesta al cristiano è drastica e pretende coraggio: rinnegare Gesù è rinnegare se stessi, impedire di riconoscerci in lui.

Drasticità del Vangelo

La parola del Vangelo è fuoco e fermento, crea divisione se necessario, persino tra i familiari. Il fuoco e la spada con cui il Vangelo sconvolge la storia non sono il conflitto dovuto all’odio, ma la radicalità dovuta all’amore: un amore così grande che deve superare anche quello naturale, il vincolo di sangue. Ossia, richiede di passare dall’amore umano (philia) alla carità divina (agape). E questa radicalità è così drastica che comporta persino il passare per la croce: per la prima volta si menziona lo stauros che i romani chiamavano furca, qui ancora nel senso generico di supplizio.

Questo amore supera l’attaccamento agli affetti familiari e supera anche l’attaccamento alla propria vita. Infatti la vera perdita non è quella della vita fisica, ma quella della vita spirituale. Per salvare la vita vera, si può anche passare attraverso la perdita dell’esistenza terrena. Questo detto di Gesù, «Chi trova la sua vita la perderà…», è il più citato nei Vangeli in cui ricorre ben sei volte, quindi è quello che meglio di altri ne caratterizza l’insegnamento.

Il martirio quotidiano

Al discepolo è chiesta dunque una ferma risposta di fronte alla croce, ma non pensiamo che si tratti solo del grande martirio, del gesto eroico. Difficoltà, stanchezze, fallimenti, umiliazioni, mancanza di risultati visibili sono all’ordine del giorno e ogni giorno interpellano la nostra fedeltà. La via della croce è anche la piccola via di S. Teresa di Lisieux, dove la grandezza dell’anima è fatta delle cose più piccole che si possano immaginare: «Raccattare una spilla per amore può convertire un’anima», diceva. Lo spillo è quanto di più piccolo, tra gli utensili, esista; è con grande concretezza che la piccola Santa, dottore della Chiesa, ammonisce: «Prima di morire troncate dalla spada, facciamoci uccidere a colpi di spillo…».

La vita non è frutto di rapina ma dono: solo donandola si può ottenere. Chi si dona si identifica col Cristo e merita la stessa ricompensa. «Piccoli» sono i discepoli di fronte alla grandezza del mondo; chi li accoglierà anche solo con un bicchiere di acqua («fresca», precisa Matteo che pensa al clima torrido della Palestina) avrà accolto il Signore in persona, e ne avrà la sua rimunerazione.

Anche se i gesti di carità non sono fatti per avere un premio, ma sono disinteressati, ottengono ugualmente la felicità di chi li compie, perché realizzano la vita nel modo più autentico.