
Andando alle radici della fede biblica, a monte di ogni esperienza religiosa, troviamo il cammino di Abramo, un rispettabile cittadino sedentario di mezza età, chiamato a vivere radicalmente l’avventura di un cammino con il suo Dio, intraprendendo i sentieri del nomade (una presentazione QUI). Straniero lui stesso in terra altrui, la sua vita è giocata nell’accoglienza generosa dell’estraneità (Genesi 18): Abramo sarà chiamato l’uomo della soglia.
Ma non è facile, il cammino dell’ospitalità. Se Abramo apre la sua vita all’altro, al diverso, al forestiero (e ciò facendo, senza saperlo, a Dio), gli abitanti della grande e ricca e moderna città di Sodoma violano la sacralità dell’ospite, e vanno incontro alla rovina (Genesi 19).
Abramo, l’uomo della soglia

Nella storia patriarcale (Genesi 12-50), i cap. 18 e 19 di Genesi costituiscono un dittico sul tema dell’accoglienza, un dittico di forti contrasti:
- l’ospitalità celebrata nella tenda di Abramo, e la sua ricompensa (Genesi 18);
- l’ospitalità violata nella grande città, e il suo castigo (Genesi 19).
Tre sconosciuti in stato di bisogno

L’accoglienza degli stranieri, nella storia di Abramo, diviene una teoxenia: accogliendo lo straniero si accoglie Dio. Lo spettatore-lettore sa che attraverso le vesti dello straniero si fa presente Dio, ma Abramo non lo sa. Abramo vede solo tre uomini che hanno bisogno di accoglienza nell’ora più calda della giornata («mentre sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno», Gn 18,1), cioè nel momento più spossante e meno felice, quando le forze vengono meno, un tempo sfavorevole in cui più è difficoltoso dare ospitalità. Ma Abramo è sulla soglia, sa accogliere. È in pace con sé, riconciliato con la propria identità, non è una persona in frantumi, che teme l’altro come una minaccia per una sicurezza che non ha.
La soglia: muraglia o ponte?

«Educarsi ad accogliere l’ospite presuppone il ritrovamento di questa familiarità con sé. È duro accettare chi viene nelle vesti di straniero, per chi rifiuta di accettare se stesso, facendo ritorno a casa dalla terra dell’alienazione… La soglia segna il limite inviolabile tra sfera pubblica e sfera intima. L’ingresso della casa, come quello della tenda, è una linea da difendere contro intrusi o invasori. Abramo sta di sentinella al suo habitat, ma una soglia è soglia, e non muraglia, se si riesce a renderla ponte fra sponde distanti, vincolo tra mondi lontani, se si procura di comprenderla nel segno di una relazione, nel rispetto della differenza» (S. Tanzarella, Il diritto a migrare, “Rivista di Teologia Morale” 35, 2003).
Una soglia può essere una muraglia insormontabile, ma nella tenda di Abramo la soglia è un ponte fra più mondi. Abramo vede tre uomini in piedi vicino alla soglia, silenziosi, valica la soglia, e corre verso di loro. Come nella parabola del buon samaritano, il contatto è solo visivo, e vago: volutamente, questi stranieri nel racconto non hanno nome, né caratteri etnici che siano descritti, né segni rivelatori della loro identità, se non la loro pura presenza.
Abramo non sa perché si trovino in viaggio, né perché si siano fermati lì da lui. Sono in attesa di un invito: non invadono il suo spazio, non si impongono, gli lasciano la sua libertà. Il linguaggio è quasi un marchio di identificazione, il silenzio appare come una sorta di protezione della propria vulnerabilità, una difesa in cui lo straniero talvolta preferisce avvolgersi: «randagio fra più lingue, la materna e le altrui, lo straniero preferisce non dire» (Ibid. p. 618).
Ecco, allora, la duplice dimensione inscritta nella soglia: uno spartiacque che, per chi si arrocca dentro di esso, fa rintanare nei propri fissi, rigidi schemi mentali. Per chi lo valica con eccessiva leggerezza, fa azzerare la propria fisionomia cancellando mentalmente la soglia stessa.
Il modello abramitico si tiene lontano da entrambi gli eccessi: la soglia rimane, a segnare il limite inviolabile tra sfera pubblica e sfera intima; ma si apre, ad accogliere – senza perdere l’identità dell’intimità della famiglia e dell’appartenenza culturale – coloro che hanno bisogno di dimorare in essa. Abramo non teme di varcare la soglia ed uscire dalla propria nicchia sociale, come non teme di far varcare la soglia ai viandanti. La sua vera ricchezza, la sua interiorità, la sua fede, la sua identità, la sua cultura, non può essere messa in pericolo dagli sconosciuti. Gli manca solo una cosa, e questa gliela daranno gli stranieri: il figlio della promessa.
Il midrash di Abramo

Nella lettura cristiana del brano, Dio appare ad Abramo nella persona del forestiero. Sia che si intenda che i tre viandanti fossero la SS. Trinità (da escludersi a livello esegetico), sia che si interpretino i tre come Dio, o il Verbo, accompagnato da due angeli, la presenza di Dio ad Abramo avviene direttamente attraverso gli sconosciuti che accoglie. Nel midrash, invece, l’apparizione di Dio è distinta da quella dei tre viandanti. I tre sono tre angeli: Raffaele, mandato a sanare Abramo dalla ferita della circoncisione, Gabriele, inviato ad annunciare a Sara la nascita del figlio, Michele, mandato a distruggere Sodoma e Gomorra.
Al centro della scena sta, ovviamente, l’ospitalità di Abramo. Abramo, secondo il Midrash, aveva fatto praticare nella sua tenda quattro aperture, una per ogni punto cardinale, in modo che da qualunque parte si avvicinassero i viandanti li avrebbe avvistati e sarebbe corso loro incontro. Il Signore, per risparmiare ad Abramo la fatica di accogliere e servire dei passanti, aveva causato sulla terra un caldo terribile (aprendo un buco nell’inferno, pensate un po’!) in modo da scoraggiare chiunque dal viaggiare. Ma Abramo si angustia terribilmente di non avere forestieri da ospitare, perciò Dio, misericordiosamente, gli fa venire incontro i tre angeli.
A questo punto, nell’interpretazione ebraica, dal versetto 1, c’è una discrepanza. Il testo dice: «Dio apparve ad Abramo al querceto di Mamre. Abramo alzò gli occhi e vide tre uomini». Quindi Dio appare ad Abramo, ma non gli dice niente. Nell’ottica ebraica, Dio appare, ma Abramo alzando gli occhi vede i tre viandanti che arrivano e pianta lì Dio da solo per occuparsi di loro.
Abramo non perde tempo a dire qualcosa come: «Signore, dimmi quello per cui sei venuto e poi vado dai pellegrini». No. La sua sollecitudine lo fa pensare: «Signore, adesso ho da fare, devo prendermi cura di queste persone che avranno caldo, stanchezza, fame e sete».
Abramo, nonostante tutta la sua fede, pianta in asso il suo Dio e si occupa dei viandanti, sicuramente tre pagani. Sono loro che hanno bisogno di aiuto, ed è in loro che Abramo serve Dio.
Quindi nella lettura ebraica Dio appare ad Abramo da solo e Abramo lo lascia solo per andare incontro agli sconosciuti e servirli in tutta fretta. Si potrebbe dire: Abramo lascia Dio per servire Dio nei forestieri. È una xenofania: Dio si manifesta nello straniero.