Elementi del vecchio rito della Cresima: bende e schiaffetti…

Lo schiaffo della liberazione
Il conferimento della Cresima secondo il rito antico. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26056399

Mi è capitato in questi giorni di rileggere un brano patristico riguardante la Passione di Cristo. In esso, Teodoreto vescovo di Cirro («Trattato sull’Incarnazione del Signore», n. 27) afferma nel V secolo:
«Col fiele egli raccolse in se stesso l’amarezza e le pene della vita mortale e le sofferenze degli uomini. Con l’aceto egli imputò a se stesso il pervertimento degli uomini, e procurò loro il ritorno a migliori condizioni. Con la porpora simboleggiò il regno, con la canna indicò la debolezza e la caducità della potenza del diavolo, con lo schiaffo manifestò la nostra liberazione, sempre prendendo su di sé le punizioni, le correzioni e le percosse dovute a noi. Dal costato aperto però non ebbe origine, come già da quello di Adamo, la donna che col suo peccato generò la morte, ma scaturì la fonte della vita che vivifica il mondo con due ruscelli. L’uno ci rinnova nel battistero e ci dà una vita immortale. L’altro serve a nutrirci dopo la nostra nascita, e proprio alla mensa divina, come fa il latte che sostenta e fa crescere i bambini».

Il contrappasso

I vari elementi della Passione hanno un evidente simbolico, quasi secondo una logica che Dante chiamerebbe del contrappasso. Il fiele rappresenta l’amarezza della vita umana, che il Cristo prende su di sé; l’aceto, la corruzione degli uomini, che in Lui viene risanata. La porpora di cui viene rivestito è un chiaro segno di sovranità, la canna diviene lo scettro regale che toglie signoria all’Avversario. Ma perché lo schiaffo dovrebbe significare la liberazione? Questo non lo comprendiamo più. Eppure, ha lasciato un segno anche nel rito della Cresima…

Lo schiaffo della liberazione

La prassi sacramentale, essendo incarnata nel vivere degli uomini, ha risentito anche della cultura dei secoli passati. Prima della riforma conciliare, la Cresima precedeva la Prima Comunione (età minima sette anni) o veniva ricevuta nello stesso giorno, non era ritenuta troppo solenne perché non richiedeva un abito particolare, ed era caratterizzata esteriormente da due particolari, entrambi curiosi e un po’ temuti: il primo era la benda bianca di lino con cui veniva coperta l’unzione del sacro crisma sulla fronte: rimpiango che non si usi più e non capisco perché sia scomparsa. Tuttavia, in alcuni luoghi ci si divertiva a spaventare i bambini: dato che la benda era decorata con lustrini che potevano sembrare piccoli chiodi, si diceva al bimbo che il vescovo gli avrebbe messo «un chiodo in fronte»!

Un rituale cavalleresco

L’altro elemento, invece, era «lo schiaffo»: il vescovo, nel rito, dava un buffetto sulla guancia destra con la formula «Pax tecum», simbolo delle avversità che il cresimato avrebbe dovuto affrontare con fede quale soldato di Cristo. In effetti questa parte del rito era militaresca (adattata, s’intende, al contesto liturgico) e risaliva alla cerimonia di investitura militare. Nell’esercito romano alla recluta si dava l’alapa militaris (schiaffo militare) che rappresentava la prima ferita della carriera, ripresa poi nelle cerimonie medievali di investitura cavalleresca, l’addobbamento (in lingua francone dubban, colpire): l’iniziato, vestito di bianco, dopo aver trascorso la notte in preghiera, era investito della sua dignità di cavaliere venendo percosso simbolicamente dal cavaliere anziano con uno schiaffo sulla guancia o con un colpo sulla nuca con la spada di piatto: era l’ultimo colpo che avrebbe dovuto lasciare impunito, in quanto da allora in poi sarebbe stato con la sua spada al servizio della giustizia e della pace.

Così spiegava il catechismo di S. Pio X: «Il leggero schiaffo che il vescovo dà al cresimato significa che questi deve essere disposto a soffrire per la fede ogni affronto e ogni paura» (n. 314). La riforma del rito ha abolito giustamente questo elemento vetusto ma non biblico, legato alla cultura medievale.

L’affrancamento

Ci sarebbe però un altro significato, troppo erudito e pertanto oramai incomprensibile: lo schiaffo dell’affrancamento, quello della definitiva liberazione in Cristo, visto che lo schiavo romano affrancato riceveva dal padrone uno schiaffo ovvero l’ultima ingiuria che avrebbe dovuto sopportare servilmente, dopo di che sarebbe stato libero e avrebbe potuto disporre di sé.

Questo è il significato dell’espressione che abbiamo letto in Teodoreto di Cirro: gli schiaffi che Gesù ha dovuto subire durante la sua Passione sono quelli che ci liberano dalla schiavitù del peccato.

Il sigillo dello Spirito Santo, il «marchio» che rendeva un uomo schiavo di un altro, è infatti quello che paradossalmente ci libera in pienezza.

Trovate un approfondimento teologico QUI.