L’inferno è inferno solo dal punto di vista del Cielo. Continuando a discutere il problema della compatibilità dell’esistenza dell’inferno con l’idea della Misericordia divina, Lewis prende in esame una terza obiezione. La spaventosa intensità delle sofferenze dell’inferno come sono suggerite nell’arte medievale ma anche in certi passi della Scrittura contraddice la Misericordia divina. Possibile che un Dio buono infligga tali pene? Innanzi tutto, avverte Lewis, non confondiamo le raffigurazioni con la vera e propria dottrina. E questa qual è?
Esaminando i passi biblici, lo scrittore enuclea tre simboli di cui il Signore si serve per parlare dell’inferno: il tormento (Mt 25,46), la distruzione (Mt 10,28), la privazione o esclusione. L’immagine del fuoco, che prevale, «è significativa perché riunisce entrambe le idee di tormento e di distruzione». Però, l’immagine della distruzione di una cosa («temete… colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna»: Mt 10,28) implica sempre l’emergere di qualcos’altro.
L’inferno è accartocciarsi su se stessi
«Bruciate un ceppo e avrete gas, calore e cenere: il fatto di essere stato un ceppo vuol dire essere ora queste tre cose. Se l’anima può essere distrutta, non deve esserci anche per lei la condizione di essere stata un’anima umana? E non è forse questa la condizione descritta in modo ugualmente appropriato come tormento, distruzione e privazione? Ricorderete che nella parabola i salvati vanno in un luogo preparato per loro mentre i dannati vanno in un luogo che non è mai stato creato per gli uomini (Mt 25,34.41). entrare in cielo vuol dire diventare più umani di quanto non siate mai stati capaci di essere sulla terra; entrare all’inferno vuol dire essere banditi dall’umanità. Quello che è gettato (o si getta) all’Inferno non è un uomo: sono i suoi “resti”».
«Essere un uomo completo vuol dire far obbedire le proprie passioni alla volontà e offrire la propria volontà a Dio; essere stato un uomo – essere un ex uomo o uno “spirito dannato” – presumibilmente vorrebbe dire consistere in una volontà totalmente concentrata in se stessa e in passioni totalmente incontrollate dalla volontà». È questa la pena dell’inferno, accartocciarsi su se stessi.
L’inferno è inferno solo dal punto di vista del Cielo: «Il Grande Divorzio»
In sostanza, «l’inferno è inferno non dal suo punto di vista, ma da quello del Cielo». Il dannato sta dove vuole stare, cioè lontano da Dio e lontano dagli altri. Questo punto sarà chiarito a meraviglia in un’altra opera di Lewis, un romanzo onirico piuttosto bizzarro, «Il Grande Divorzio» del 1946, in cui le anime dannate, pur avendo la possibilità di accedere al Paradiso e di restarvi, preferiscono (tutte, tranne una) fare ritorno all’Inferno, dove si sentono a loro agio.
Come nasce «Il Grande Divorzio?»
I lettori desideravano avere da Lewis una descrizione del paradiso, così come lo scrittore aveva saputo tanto bene dipingere nelle Lettere di Berlicche la filosofia dell’inferno. Lewis si schermiva spiegando che in sé aveva potuto benissimo scoprire le tracce di un mondo infernale, ma non avrebbe potuto altrettanto facilmente scorgervi le tracce del paradiso. Trovò abilmente una via di mezzo: condurre i lettori, con le ombre infernali, alle soglie del paradiso, e lì lasciarli ad assistere alle strategie celesti messe in atto non per forzare, bensì per invogliare le anime dannate (dannate di loro propria volontà) ad entrarvi e rimanervi.
È dal 1944 Lewis che inizia a scrivere questa storia riguardante il rapporto fra Paradiso e Inferno, basata sulla fantasia medievale del refrigerium, secondo cui i dannati ogni tanto fanno una vacanza in Paradiso. La storia è modellata su Dante, che egli conosceva ed amava. Il titolo Grande Divorzio riecheggia invece un classico del Romanticismo inglese, Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno di William Blake, in cui l’autore sostiene che «la strada dell’eccesso porta al palazzo della saggezza» (W. Blake, Il matrimonio del cielo e dell’inferno, SE, Milano 1994, 20). Secondo Blake, gli opposti devono sposarsi, perché il progresso sia possibile. La tesi di Lewis è, al contrario, che le due realtà sono opposte e inconciliabili – nessun matrimonio fra di loro, ma solo un divorzio senza appello, semplicemente perché i dannati sono tali per loro propria irrevocata scelta.
Il Grande Divorzio è in fondo la traduzione narrativa delle affermazioni del Satana di Milton: «Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l’inferno»; ma anche della famosa definizione di Sartre: L’Enfer c’est les autres. Anche nel dramma di Sartre la porta dell’inferno è aperta. Dipende solo dalla scelta personale, dice Lewis: ognuno, accettando o respingendo Dio, trova in sé e negli altri il proprio Paradiso o il proprio inferno, a seconda di ciò che vuole.
Von Balthasar: Sperare per tutti
Per questo, il grande teologo Hans Urs Von Balthasar giudicava Il grande divorzio come il capolavoro di Lewis. Lo cita più volte nel suo saggio Sperare per tutti (ed. tedesca 1986; ed. italiana: H.U. Von Balthasar, Sperare per tutti, Jaca Book, Milano 1989), scritto in risposta ad alcune pesanti critiche che alcuni gli rivolsero riguardo ad affermazioni da lui fatte nel 1984, impropriamente e scandalisticamente sintetizzate dalla stampa sotto il titolo ad effetto «L’inferno è vuoto». H.U. Von Balthasar fu contestato per aver affermato la speranza della salvezza per tutti, che contraddirebbe gli enunciati biblici sulla realtà dell’Inferno, e per aver sostenuto che l’Inferno è il frutto di una libera scelta dell’uomo.
Von Balthasar si appella così a Il grande divorzio di C.S. Lewis: «Ogni rinchiudersi della creatura nella segreta del proprio animo – questo in fondo è l’inferno» (C.S. Lewis, Il grande divorzio, Jaca Book, Milano 1979, 77), dopo aver addotto la testimonianza di Karl Rahner e le parole del cardinal Ratzinger, altro grande estimatore di Lewis:
«Cristo non assegna a nessuno la perdizione, egli è pura salvezza. Il male non viene da lui inflitto, ma esiste là dove l’uomo è rimasto lontano da lui, nasce dallo starsene chiusi in se stessi. La parola di Cristo come offerta di salvezza renderà allora palese che chi si è perduto è stato lui stesso a innalzare le barriere e a escludersi dalla salvezza» (J. Ratzinger, Eschatologie, Pustet, Regensburg 1977, 169).
Dall’inferno al paradiso: andata e ritorno
Come quello di Dante, il viaggio di Lewis inizia dall’inferno: dagli spiriti concentrati su se stessi, ipertrofici nella rappresentazione del loro Ego, spasmodicamente tirannici nel desiderio di controllare gli altri eppure solo velleitari e inconsistenti, Spettri, appunto. Sono persi in se stessi e nella loro meschinità: lo Spettro teologo (c’è anche un vescovo fra i dannati, anglicano, però) preferisce tornare all’inferno, dove esiste un vivace circolo teologico in cui può discutere su Cristo, anziché andare in paradiso e incontrarlo di persona. Madri e mogli molto possessive preferirebbero vedere i propri familiari all’inferno e avere la possibilità di controllarli, piuttosto che sapere che hanno trovato il vero amore in Paradiso.
Gli Spettri in sostanza reclamano i loro diritti, non vogliono mendicare né accettare la carità. Sono totalmente e irrevocabilmente chiusi in se stessi. «Non voglio nessun aiuto. Voglio esser lasciato solo», dice uno. «Tutti quelli che sono all’inferno se lo scelgono. Senza questa libera scelta non potrebbero essere all’inferno», commenta Von Balthasar [Sperare per tutti, 66]. «Io sono Mio», è il semplice motto dell’Inferno. Il Virgilio lewisiano, lo scrittore MacDonald, spiega:
«L’Inferno è uno stato della mente, non può essere espressa cosa più vera. E ogni stato mentale – ogni coercizione patita dalla creatura nella prigione della sua stessa mente – è, alla fine, Inferno. Ma il Paradiso non è uno stato della mente. Il Paradiso è la realtà medesima. Tutto ciò che è pienamente reale è Paradiso».
«L’intero Inferno è più piccolo di un ciottolo del vostro mondo terrestre ma è altresì più piccolo di un atomo di questo mondo, il Mondo Reale. Guarda quella farfalla. Se ingoiasse tutto l’Inferno, l’Inferno non sarebbe grande abbastanza da causarle alcun danno o perché ne avvertisse il sapore».
Le porte dell’Inferno sono chiuse dall’interno
Nessun beato, perciò, potrebbe stare dentro l’Inferno: «L’Inferno non può spalancare abbastanza la propria bocca […]. Niente può essere piccolo abbastanza. Per un’anima dannata non vi è difficoltà: essa è raggrinzita e ammutolita su se stessa». Solo gli esseri superiori possono abbassarsi al livello degli altri, il contrario invece non è possibile. Solo Uno può raggiungerli: solo il più Grande di tutti può farsi piccolo abbastanza per entrare all’Inferno. Montaigne si metteva a giocare con la sua gattina miagolando come se anche lui fosse un gatto, ma, dice Lewis, la sua gattina non si mise mai a parlare con lui di filosofia. Così pure, solo Uno è grande abbastanza per essere disceso all’Inferno.
A ognuno di noi sta accogliere o negare questa realtà. Il paradiso è nelle nostre mani, le porte dell’inferno sono chiuse dal’interno. «Nessuna anima che seriamente e costantemente desideri la gioia potrà mai perderla. Quelli che cercano, trovano. A coloro che bussano verrà aperto».
L’umiltà dell’Onnipotenza
Tornando al saggio sul Problema della sofferenza, cogliamo infine, con Lewis, un’ultima obiezione all’esistenza dell’Inferno: la perdita definitiva anche di una sola anima significa la sconfitta dell’onnipotenza. È proprio così. Creando esseri dotati di libero arbitrio Dio Onnipotente si sottomette alla possibilità di una tale sconfitta. Lewis chiama però questa sconfitta un miracolo, «perché creare delle cose che non sono Lei, e così mettersi, in un certo senso, nella posizione di essere respinta dalle Sue creature, è la caratteristica più sorprendente e impensabile della Divinità».
Lewis conclude il capitolo dicendo che la risposta alle obiezioni alla dottrina dell’Inferno è a sua volta una domanda: «Che cosa dovrebbe Dio fare secondo te?». Cancellare i peccati? Lo ha fatto, sul Calvario. Dare agli uomini a tutti i costi una nuova possibilità, appianando le difficoltà e offrendo loro ogni aiuto? Lo ha fatto e lo fa continuamente. Perdonarli? Non vogliono essere perdonati. Lasciarli a se stessi? Alla fine, è ciò che fa per non violare la loro libertà.