La festa dell’Annunciazione è anche la grande festa di quella che è l’Incarnazione: perché l’Incarnazione del Verbo non iniziò con la Natività di Gesù, ma con la concezione di Maria, che si celebra convenzionalmente nove mesi prima della data, altrettanto convenzionale, del Natale.
Il 25 marzo anticipa di nove mesi la festa della Natività; quando cade, come quest’anno, nella Settimana Santa, si celebra liturgicamente il primo giorno utile, cioè il secondo lunedì dopo Pasqua. È una delle feste più antiche della cristianità, venendo fissata, come data di celebrazione dell’Incarnazione, subito dopo quella della Natività, nel corso del IV secolo. In molti stati, andò anche a rappresentare l’inizio dell’anno civile (per il calendario toscano, vedere QUI).
Quanto al significato dell’evento che viene celebrato in questa festa, l’Incarnazione del Signore, è una enormità: Dio che si fa carne… rimanendo perfetto nella sua divinità e divenendo uomo perfetto nella umana carne.
Forse dovremmo riflettere su questo: potremmo essere tentati a pensare a Gesù come un Superman, un Più-che-uomo nella sua umanità. Invece è uomo in tutte le debolezze dell’umanità, eccetto il peccato! Non un «Più-che-uomo», ma un «meno che uomo», «talmente sfigurato era il suo aspetto al di là di quello di un uomo, e la sua figura al di là di quella dei figli dell’uomo» (Is 52,14). Quindi, non un Gesù che umanamente ci schiaccia con la sua possanza, ma un Gesù che condivide con noi tutte le fragilità dei figli di Adamo…
Dalle «Lettere» di S. Leone Magno: l’Incarnazione
(Lett. 28 a Flaviano, 3-4)
Vera, integra e perfetta fu la natura nella quale è nato Dio, ma nel medesimo tempo vera e perfetta la natura divina nella quale rimane immutabilmente. In lui c’è tutto della sua divinità e tutto della nostra umanità.
Per nostra natura intendiamo quella creata da Dio al principio e assunta, per essere redenta, dal Verbo. Nessuna traccia invece vi fu nel Salvatore di quelle malvagità che il seduttore portò nel mondo e che furono accolte dall’uomo sedotto. Volle addossarsi certo la nostra debolezza, ma non essere partecipe delle nostre colpe.
Assunse la condizione di schiavo, ma senza la contaminazione del peccato. Sublimò l’umanità, ma non sminuì la divinità. Il suo annientamento rese visibile l’invisibile e mortale il creatore e il signore di tutte le cose. Ma il suo fu piuttosto un abbassarsi misericordioso verso la nostra miseria, che una perdita della sua potestà e del suo dominio. Fu creatore dell’uomo nella condizione divina e uomo nella condizione di schiavo. Questo fu l’unico e medesimo Salvatore.
Il Figlio di Dio fa dunque il suo ingresso in mezzo alle miserie di questo mondo, scendendo dal suo trono celeste, senza lasciare la gloria del Padre. Entra in una condizione nuova, nasce in un modo nuovo. Entra in una condizione nuova: infatti invisibile in se stesso si rende visibile nella nostra natura; infinito, si lascia circoscrivere; esistente prima di tutti i tempi, comincia a vivere nel tempo; padrone e signore dell’universo, nasconde la sua infinita maestà, prende la forma di servo; impassibile e immortale, in quanto Dio, non sdegna di farsi uomo passibile e soggetto alle leggi della morte.
Colui infatti che è vero Dio, è anche vero uomo. Non vi è nulla di fittizio in questa unità, perché sussistono e l’umiltà della natura umana, e la sublimità della natura divina.
Dio non subisce mutazione per la sua misericordia, così l’uomo non viene alterato per la dignità ricevuta. Ognuna delle nature opera in comunione con l’altra tutto ciò che le è proprio. Il Verbo opera ciò che spetta al Verbo, e l’umanità esegue ciò che è proprio della umanità. La prima di queste nature risplende per i miracoli che compie, l’altra soggiace agli oltraggi che subisce. E, come il Verbo non rinunzia a quella gloria che possiede in tutto uguale al Padre, così l’umanità non abbandona la natura propria della specie.