C.S. Lewis e la Letteratura della speranza… per tutti

Letteratura della speranza
Foto di AiArtista da Pixabay

La fantascienza si potrebbe anche configurare come Letteratura della speranza. Diviene tale quando, a dispetto degli scenari apocalittici e post-apocalittici che disegna, si apre ad un futuro possibile in cui l’uomo può trovare risposta alle sue aspettative più paurose, al silenzio angosciante dello spazio e del tempo, risollevando il proprio destino.

La Letteratura della speranza per tutti di C.S. Lewis

Lewis ha dato voce singolare a questo silenzio con i romanzi della Trilogia cosmica, ma non solo in chiave negativa. Sul ruolo dell’uomo nel cosmo Lewis ha avuto molto da dire.

L’uomo come Cristo degli animali

Prima di cedere all’orgoglio che è la radice del peccato, ovvero il movimento per cui una creatura cerca di sussistere da sola, di esistere per sé (cfr. S. Agostino, De Civitate Dei, XIV,13), l’uomo, in rapporto di amore incontaminato con Dio, aveva anche il dominio sul creato:

«L’uomo fu creato per essere il sacerdote e perfino, in un certo senso, il Cristo degli animali, il mediatore attraverso il quale essi apprendono quel tanto di splendore divino che la loro natura irrazionale consente».

Le bestie non si possono capire solo in rapporto con Dio: «le bestie si devono capire solo nel loro rapporto con l’uomo e, attraverso l’uomo, con Dio» (C.S. Lewis, Il problema della sofferenza, GBU, Roma 1988, 67; 117).

C’è redenzione, ritiene Lewis, anche per loro. La sua è un’opinione teologica, ma ben fondata.

Come già l’uomo del Paradiso, anche l’uomo che vive in uno stato di innocenza perduta e tuttavia ritrovata perché redento da Cristo, dovrebbe essere a sua volta il redentore del cosmo e del mondo animale.

«Rm 8,19-23 afferma che la creazione intera desidera e aspetta di essere liberata da una sorta di schiavitù, e che la liberazione avverrà solo quando noi, i cristiani, assumeremo pienamente la condizione di figli di Dio ed eserciteremo la nostra “gloriosa libertà”».

Sacerdote del cosmo?

A livello cosciente, afferma Lewis, Paolo stava pensando solo alla nostra Terra, alla vita terrestre animale e probabilmente vegetale, rinnovata o glorificata alla glorificazione dell’uomo in Cristo. Ma è forse possibile, anche se non necessario, dare alle sue parole un significato cosmico: «Può essere che la redenzione, partendo con noi, sia al lavoro da noi e attraverso noi» (Id., Religion and Rocketry, 88). Il «Pianeta Silenzioso» può rompere il suo silenzio, riprendere la danza cosmica e riportare a pienezza la gioia dei Cieli.

È in questa chiave di speranza che deve essere letta la narrativa di Lewis, apprezzata del resto anche semplicemente come letteratura di evasione, ma non accolta finora in Italia come meritava. Mentre all’estero è notissima, i critici italiani ne parlano poco o addirittura la ignorano, forse conoscendo Lewis più come autore di fantasy che di fantascienza, o la sbrigano con un giudizio approssimativo e, a parer mio, superficiale.

Negli appunti di Ernesto De Martino, La fine del mondo, Lewis è collocato tra quegli scrittori cattolici, come Bernanos, che esprimono «il valore edificante e messianico della fede, particolare forma di protesta contro l’era tecnocratica» (Il critico menziona come cattolici, oltre a Bernanos e Lewis, Saint-Exupéry, Montherlant, S. Weil, il gruppo Esprit: Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, 503). Ma in Lewis, che tra parentesi non è cattolico ma anglicano, c’è molto, molto di più che non una forma di letteratura edificante e moraleggiante e una contestazione della tecnocrazia.

Non contro la scienza ma contro lo scientismo

Indubbiamente, la speranza di Lewis non è fondata sulla scienza ma sulla fede. Tuttavia, Lewis non è contro la scienza, ma contro lo scientismo. Lo affermò egli stesso, parlando di Lontano dal Pianeta Silenzioso,

«che certamente attacca, se non gli scienziati, pur tuttavia qualcosa che si potrebbe chiamare “scientismo” – un certo panorama sul mondo che è casualmente connesso con la volgarizzazione delle scienze, sebbene ciò sia molto meno comune tra i veri scienziati che tra i loro lettori. È, in breve, la credenza che il supremo fine morale è il perpetuarsi della nostra specie e che questo va perseguito anche se, nel processo di adattamento per sopravvivere, la nostra specie deve spogliarsi di tutte quelle cose per le quali la stimiamo – compassione, felicità e libertà» (C. S. LEWIS, «Una risposta al professor Haldane», in Altri mondi, pag. 128).