
Che cosa sappiamo di prima mano della vita delle comunità cristiane primitive? Una fonte è sicuramente costituita dagli Atti degli Apostoli. Luca ci dice che i discepoli di Gesù erano un cuor solo e un’anima sola (4,32) – salvo poi segnalare disordini come il tentativo di frode di Anania e Saffira (cap. 5), la tensione tra cristiani di origine ebraica palestinese e cristiani di origine ebraica ellenizzata (cap. 6), e quella fra etnico-cristiani e giudaizzanti (cap. 15). In generale, Luca, che scrive a distanza di anni (non tanti, ma almeno 20-30), tende a dare una visione un po’ idealizzata. Paolo, invece, che è coevo ai fatti ed il testimone più antico, che cosa ci dice?
La testimonianza di Paolo:
L’esperienza di Tessalonica
La Prima Lettera ai Tessalonicesi è il più antico scritto cristiano, composto verso l’anno 50, riguarda l’esperienza di Tessalonica, e fa trasparire un grosso problema esistente nella comunità di estrazione greca, pagana: non vogliono lavorare.
Scopriamo dunque che esiste un problema nei confronti del lavoro (nell’antichità il lavoro era solo manuale), che i pagani, conformemente alla visione greco-romana, considerano ignobile, buono solo per le bestie, gli schiavi e gli uomini più vili, mentre per gli ebrei il lavoro fa parte della vocazione originaria dell’uomo, è un aspetto della sua dignità: l’adam non è creato per far niente, ma viene posto nel giardino primordiale a coltivarlo e custodirlo. Un detto del Talmud afferma: «L’uomo è obbligato a insegnare a suo figlio un mestiere; chiunque non insegna a suo figlio un mestiere, gli insegna a diventare un ladro» (Tosefta “Qiddushin”, I, 11)…
Gli studiosi della Legge dovevano unire lo studio e l’insegnamento all’esercizio di un lavoro manuale: chi era sarto, chi taglialegna, chi falegname; Gesù era, infatti, falegname; Paolo stesso era fabbricante di tende, e dava l’esempio ai Tessalonicesi col proprio duro lavoro. Ma la comunità stentava a convincersi.
Diffidenza verso la corporeità
Questo atteggiamento di rifiuto del lavoro faceva parte di una più ampia problematica di diffidenza verso il corpo, la materia, la parte fisica dell’uomo. Grecamente, il corpo veniva considerato secondario, accessorio, e non soggetto etico, per cui il vero soggetto etico umano, che è la sua anima o spirito o intelletto, può lasciare andare il corpo all’impudicizia senza compromettere la propria integrità morale.
La stessa diffidenza verso la corporeità si esplica anche nella difficoltà a credere nella Resurrezione della carne, a solo vantaggio dell’immortalità dell’anima.
Si preferisce attendere il ritorno glorioso di Cristo con falsi allarmi, senza lavorare (ergázomai), piuttosto andandosene in giro impicciandosi di tutto (periergázomai: si noti il gioco di parole in 2 Tessalonicesi 3,11). Paolo arriva a dire: Se qualcuno non vuole lavorare, neanche mangi… (2 Tessalonicesi 3,10). Il problema non è da poco.