Lettura continua della Bibbia. Deuteronomio 8: L’esperienza del deserto

L'esperienza del deserto
Foto di Sabine Kulau da Pixabay

L’esperienza del desertoè la garanzia dell’amore di Dio per Israele. Questa esperienza fa parte del paradigma del processo di liberazione dall’Esodo: fra

  • l’uscire dall’Egitto e
  • l’entrare nella terra promessa
  • si frappone un lungo periodo di cammino nel deserto, luogo di solitudine, aridità e morte: Dio fa andare Israele nel deserto, così come
  • lo ha fatto uscire dall’Egitto
  • e lo farà entrare nella terra promessa (questi verbi alla forma causativa esprimono il senso teologico della vicenda storica di Israele, non abbandonata alla casualità, ma guidata dalla volontà divina).

L’esperienza del deserto

Questa stessa condizione di aridità e oscurità può essere quella sperimentata, al tempo della costituzione di questo scritto, dalle dieci tribù del Nord deportate dagli assiri; e il Deuteronomio legge tale condizione in chiave positiva. Il cammino quarantennale nel deserto è dovuto al peccato di ribellione (simile, in questo, all’allontanamento dal giardino di Adamo ed Eva: se si rifiuta Dio, si rifiuta la vita), ma ha lo scopo di educare Israele, di convertirlo al bene. Il deserto non è un male, è una medicina amara per il cuore di Israele.

L’esperienza del deserto: la prova

In Dt 8,2-6, però, il tema sviluppato più direttamente è quello della prova e non della punizione di una colpa. L’esperienza del deserto viene vista con una precisa finalità positiva, quella di un esame che grazie alle sue difficoltà valorizza le qualità di colui che lo affronta, e serve al maestro per approvare e confermare il discepolo. In altre tradizioni bibliche la categoria della prova, usata per qualificare le difficoltà attraversate dal “giusto”, è applicata ad Abramo (Gen 22,1), Giobbe (Giob 1), Tobi (Tob 2,10), al “giusto sofferente” (Sal 119,75; Sap 3,5 s.), all’esilio di Israele (Sal 66,10 ss.).

In Dt 8,2 s. l’esperienza del deserto viene definita prova umiliante, che fa sperimentare la fame (debolezza impotente) e quindi la manna (dipendenza da un Altro): è come se un adulto divenisse bambino, incapace di provvedere da solo alla propria sussistenza (BOVATI, Op. cit., p. 113 s.). Nel deserto la mano dell’uomo è impotente, non può far uscire dalla terra il suo cibo, neppure con dolore: l’uomo deve solo spalancare la bocca per ricevere il cibo da Dio:

«Sono io il Signore tuo Dio,

che ti ho fatto salire dal paese d’Egitto:

apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 81,11).

Esperienza di debolezza, il deserto è appello

  • alla fiducia nel Dio – Origine della vita,
  •  alla dipendenza dal Signore,
  •  all’accettazione della Sua parola.

L’esperienza del deserto: la manna

La famosa frase di Dt 8,3 «Non di solo pane vive l’uomo…» risponde ad una domanda di tipo sapienziale (“Che cosa fa vivere l’uomo?”) non con la risposta banale della saggezza umana («Ciò che esce dalla bocca della terra, il pane»; cfr. anche la benedizione ebraica della mensa: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re dell’universo, che fai uscire il pane dalla terra»), ma il suo capovolgimento:

  • ciò che viene dal cielo, la manna, un cibo sconosciuto che non dipende dalle risorse dell’uomo («MAN HU: Che cos’è?», Es 16,14 s.)
  • ciò di cui la manna è segno, la parola di Dio, ciò che esce dalla bocca di Dio per entrare nell’orecchio e nel cuore dell’uomo.

Passaggi di significato

Il tema della manna, come quello del deserto, è uno dei più ricorrenti nella rivelazione vetero- e neo-testamentaria.

Ne troviamo un ampio racconto in Es 16, dovuto principalmente alla redazione sacerdotale che in esso sottolinea la teologia del sabato.

Viene narrato come per inciso in Num 11,7-9, con un tono molto pratico che richiama la fonte jahvista, e rievocato in Sal 78,24 s. come pane del cielo, pane dei forti (che nei LXX diviene il pane degli angeli)e in Sal 105,40 («pane del cielo»).

In questi testi la manna rappresenta il sostentamento che Dio dà al suo popolo; Dt 8,3 compie un passo avanti e vede questo sostentamento in «tutto ciò che esce dalla bocca di Dio».

Con un caratteristico sviluppo nella comprensione della Rivelazione che troviamo spesso nei LXX, questa versione greca rende la suddetta espressione, operando una precisazione di significato, nel modo seguente: «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», ed in questa forma ne leggiamo la citazione, per esteso, in Mt 4,4 (l’episodio delle tentazioni; citazione abbreviata nel passo parallelo di Lc 4,4).

L’interessante rilettura che ne fa il libro della Sapienza (metà I secolo a.C.) al cap. 16,20-29, sottolinea nella tradizione giudaica sulla manna alcuni elementi rimasti fino allora extra-biblici, cioè l’indistruttibilità e l’adattabilità al gusto di ogni persona («ha dato loro un pane disceso dal cielo, che porta in sé ogni dolcezza»: liturgia), e soprattutto la necessità di «prevenire il sole» per la lode di Dio.

Senso tipico

L’Antico Testamento ha scoperto dunque nell’episodio storico della manna un significato più profondo che rimanda al dono di Dio e, più precisamente, alla parola di Dio. Il cap. 6 del Vangelo secondo Giovanni riprende questa applicazione della figura della manna al pane dal cielo, pane della vita, che nella teologia giovannea è Gesù – Parola incarnata (vv. 26-50), ma dal v. 51 ne fa il tipo dell’Eucaristia, la carne del Figlio dell’uomo.

Così, al di là del fatto storico-scientifico (secondo l’ipotesi più comune, la manna è la secrezione zuccherina della Tamarix mannifera a seguito della puntura di un insetto, il coccus manniparus, oppure la secrezione dell’insetto stesso che si è nutrito della linfa della pianta), questo segno del vivere quotidiano, avvenuto al momento opportuno, è stato oggetto di diverse riletture fino ad assumere il senso tipico più profondo in relazione all’Eucaristia. Ma, a livello della lettura veterotestamentaria, il senso diretto di questa vicenda della vita nel deserto sta in questa riflessione: finché l’uomo si nutre del pane che egli stesso produce non può capire che non è il pane a dargli la vita. È solo nella privazione del nutrimento conosciuto che l’uomo può capire che la sua vita sta nell’ascolto – obbedienza.

Il paradosso del deserto

E in tutti i suoi aspetti il deserto è un luogo paradossale: è una terra assetata e senz’acqua, eppure l’acqua scaturisce dalla roccia (v. 15); è un luogo di serpenti velenosi e di scorpioni (v. 15), eppure Israele vi cammina indenne, senza che i suoi abiti si consumino e i suoi piedi si gonfino (v. 4). Il non logorarsi del vestito simboleggia che la vita perdura (cfr., per l’immagine contraria, Sal 102,27): cfr. il dono degli abiti all’uomo e alla donna allontanati dall’Eden (Gen 3,21). Gli animali velenosi sono simbolo di insidia nel cammino del fedele (Sal 91,13; Lc 10,19): ma ogni prova è confortata dalla presenza invisibile del Padre. Per superare la prova, l’israelita deve accettare di vedere solo il dono del presente, senza curarsi del domani. Al credente sono dati dei segni di provvidenza, anche segni di piccole cose quotidiane.

La prova è dunque un modo di correggere e di insegnare («Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te»: v. 5), un modo di scoprire il senso vero della vita del credente, un’esperienza, una lezione.

Non perdere la memoria

La prosperità della terra di Canaan (vv. 7-9.12-13) è rischiosa, può far perdere la memoria dell’azione salvifica di Dio. Credendo di dipendere dalle cose, non si vive più della Parola, si accampa una assurda pretesa di indipendenza (BOVATI, Op. cit., p. 121), un orgoglio insensato; si pensa: «La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze» (v. 17). Si costruisce un idolo, si adora l’apparenza che si è creata e che ci rassicura. «L’uomo orgoglioso adora se stesso nella sua propria opera e dimentica da dove viene, e dimentica chi lo ha creato e donato a se stesso» (Ibid.). Il ricordo del deserto non deve essere rimosso.