
Le due differenti conclusioni del racconto del diluvio, la J e la P, divergono fra loro in modo caratteristico, conformemente alle peculiarità delle rispettive narrazioni. Mentre nella tradizione P abbiamo un solenne racconto di alleanza, nella tradizione J la storia finisce con un sacrificio al Signore, ma anche con … una sbornia e una maledizione: l’ebbrezza di Noè.
Genesi 9
20Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. 21Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda. 22Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. 23Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre scoperto. 24Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; 25allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!». 26Disse poi: «Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! 27Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!».
Noè offre un sacrificio…
La tradizione P, non per niente chiamata tradizione Sacerdotale, è estremamente interessata all’aspetto rituale della vita. Secondo la tradizione P, Dio ha istituito il sacerdozio, e con questo i riti sacrificali, solo nel contesto dell’alleanza del Sinai, con Aronne fratello di Mosè. Perciò non ricorda mai che i patriarchi abbiano offerto sacrifici: questo aspetto della vita è riservato dal Sacerdotale ad un’alleanza successiva. La tradizione J, invece, più realisticamente, presenta i patriarchi in atto di offrire sacrifici al Signore: il patriarca, capo assoluto del gruppo familiare, assommava in sé tutti i poteri e tutte le funzioni, era anche il sacerdote della sua famiglia, e celebrava i sacrifici secondo la propria sensibilità.
È quindi estremamente logico, per questa corrente di tradizione, che Noè celebri l’uscita dall’arca con un bel sacrificio animale. Qui si scopre perché la stessa tradizione aveva riportato il dettaglio di non una, ma sette (numero di pienezza, non necessariamente da prendere alla lettera) coppie di animali puri introdotti nell’arca. Gli animali puri sono quelli sacrificabili, per cui, se Noè non ne avesse portato un numero ridondante a bordo dell’arca, li avrebbe salvati dal diluvio ma li avrebbe estinti lui!
Uno spiccato antropomorfismo
Il linguaggio usato dalla tradizione J è spiccatamente antropomorfico. Antropomorfismo è esprimere la realtà divina in termini umani: nel racconto di creazione di stampo jahvistico, il Signore Dio plasma un corpo umano come il vasaio farebbe con l’argilla, insuffla la vita come si fa per attizzare una fiammella nella brace, costruisce una donna con un fianco dell’adam… Non solo, ma rimane deluso della condotta dell’uomo, si pente di averlo fatto: sentimenti umani non consoni con la perfezione divina.
Adesso, persino, odora la fragranza del sacrificio e se ne compiace: oltre ad essere fornito di mani, ha anche un… naso? Si tratta chiaramente di semplici modi di dire che permettono di esprimere in modo anche rozzo una realtà divina di per sé ineffabile, cioè indicibile a causa dell’infinito dislivello fra la grandezza di Dio e la piccolezza dei mezzi umani. L’antropomorfismo non vuole abbassare Dio al livello umano, vuole piuttosto rendere Dio accessibile all’uomo. Rappresenta Dio come Persona viva, non come un’idea astratta o un principio indifferente. Lo rappresenta come
«persona, volontà piena, in attivo confronto con l’uomo, disposto a comunicarsi, sensibile all’urto del peccato umano, alla supplica dell’umana preghiera, al pianto sopra la colpa; un una parola: è un Dio vivo»
(L. Köler, Theologie des Alten Testaments, 1953, p. 6).
Quanto al particolare dell’odorare il profumo del sacrificio, è un’affermazione audace e sorprendente anche per l’antropomorfismo dell’Antico Testamento, che il narratore J trova nel poema di Gilgamesh, dove anzi gli dèi, attratti dall’odore dei sacrifici, piombano su questi e vi si appiccicano come mosche.
… inventa il vino e prende la sbornia

Dalle stelle alle stalle: la storia di Noè, secondo il racconto J, si conclude con un episodio indecoroso che deve servire di monito per i contemporanei e i posteri del narratore.
Dopo aver celebrato il sacrificio, quindi dopo aver compiuto un gesto sublime nei confronti del Signore, Noè, quale secondo Adamo, riprende a coltivare la terra, e scopre il modo di alleviare la fatica con il vino (il Targum spiega che la vite piantata da Noè proveniva da un ceppo trascinato dalle acque che lo avevano strappato dal giardino dell’Eden).
Però Noè cade in preda all’ebbrezza e in quanto tale si espone scoperto e indifeso alla vista dei figli.
I quali figli reagiscono in modo del tutto diverso: Sem e Jafeth, camminando a ritroso per non profanare il corpo del padre con il loro sguardo, lo coprono con un mantello; Cam, che lo scorge per primo, lo dileggia spudoratamente additandolo ai fratelli.
La veste di Noè
L’ebbrezza porta con sé una conseguenza: l’incoscienza, e con essa il denudamento. Biblicamente il vestito è più che un mezzo di protezione e uno strumento di decoro: indica la stessa personalità nella sua dignità. In rapporto alla persona, è simbolo di un mondo ordinato da Dio e promessa di restituzione della gloria perduta del paradiso. Vestire gli ignudi non è solo proteggerli dal freddo e dalla vergogna. È farli uscire dal caos della incertezza che minaccia le creature se vengono sottratte alla tutela del Creatore. Perciò vestire una persona nuda è un atto di giustizia (cfr. Ez 18.7), che la riporta alla vita comune (cfr. Is 58,7), e le ridona la sua personalità sociale (cfr. 1Sam 18,3-4).
Secondo il Midrash, poi, quello di Cam non sarebbe un semplice per quanto inopportuno scherno, ma un vero e proprio atto di sopraffazione verso il padre, quale l’abuso su di lui o la sua evirazione.
Perciò un Noè nudo è un uomo caduto in uno stato di umiliazione. Ecco perché il gesto di Cam che approfitta della nudità del padre per deriderlo mostrandolo ai fratelli viene sottolineato con veemenza straordinaria mediante una serie di benedizioni e maledizioni. In particolare, chi viene maledetto (ricordiamo che maledire non significa augurare il male, ma mostrare il male che seguirà), con le solite stranezze a volte ricorrenti nel testo biblico, non è Cam autore del misfatto, ma il figlio di questi, Canaan, innocente – secondo la nostra mentalità – di tale peccato. Ma l’autore sacro approfitta di questo antico ricordo per condannare violentemente (è questo, in realtà, il senso del racconto) la religione e i costumi orgiastici dei cananei, identificati in Canaan loro progenitore.
La maledizione di Canaan
Del tutto errata è l’identificazione tradizionale cristiana dei discendenti di Sem con le popolazioni asiatiche, quelli di Jafeth con gli europei e i discendenti di Cam con la razza nera: una identificazione comoda per gli schiavisti. L’antico Israele non conosceva tutti questi popoli, ma solo quelli diffusi nella sua area: quindi, come discendenti di Cam, gli egiziani, i libici, gli arabi, i cananei, tutt’al più gli etiopi. Quello che preme al narratore è il popolo che abitava la terra in cui Israele si era insediato, la terra di Canaan, appunto, in cui vivevano i cananei. Questi praticavano una religione disinvolta in cui i riti di fertilità, per avere raccolti, bestiame e figli erano rappresentati da riti orgiastici. La maledizione con cui viene marchiato Canaan è un deterrente per l’Israele contemporaneo al narratore; come a dire: non imitate i loro usi, perché sono maledetti!