Le suore Betlemite di Roma misero in salvo, a rischio della vita, 18 ebrei. Questa è la Testimonianza scritta di Roberto Piperno, ebreo. Quando era un bambino di 5-6 anni, rimase nascosto nell’istituto di Piazza Sabazio dal dicembre 1943 alla liberazione della città, il 4 giugno 1944. La relazione è databile al luglio 2008. Vedere A. Martínez Cuesta, Betlemite Figlie del S. Cuore di Gesù, Dizionario degli Istituti di Perfezione I, col. 1416-1420.
Le Suore Betlemite: testimonianza di Roberto Piperno
Il ricordo è spesso, a volte molto, difficile. È nella nostra natura umana, selezionare, selezionare, selezionare le poche cose che ci sembrano significative da ricordare. Le altre si perdono perché sono penose o troppo felici o marginali.
Entrai nel Convento delle Suore Betlemite alla metà di dicembre del 1943. Ero nato alla fine del maggio del 1938 ed avevo cinque anni e mezzo. Troppo piccolo per sapere e capire ciò che stava avvenendo, troppo grande per non rendermi conto del cambiamento e per non comprendere che eravamo in fuga dalla nostra precedente vita.
Ospitalità dalla famiglia Ragionieri
In precedenza, per sfuggire dalla caccia agli ebrei dei nazisti, dalla metà di settembre ero stato nascosto presso la famiglia Ragionieri, amica di mio padre, con papà, mamma e mia sorella Marina, di tre anni più grande di me. Ma dopo la retata degli ebrei compiuta dai nazisti a Roma il 16 ottobre, anche i miei tre nonni, fortunosamente salvatisi, erano arrivati in questa casa ospitale e protettiva: i genitori di mia madre e la mamma di mio padre.
Ma i tempi si allungavano e gli Alleati, pure sbarcati già ad Anzio, non arrivavano a Roma. La casa che ci ospitava era troppo piccola per accogliere sette persone, troppe anche per il rischio di dare nell’occhio degli abitanti di altri appartamenti di Via Arno.
Al Laterano
Così a Dicembre, grazie alle precedenti amicizie di mio padre, ci spostammo tutti nella Basilica di San Giovanni, territorio vaticano, giacché dopo il 16 ottobre il Papa aveva aperto i conventi agli ebrei che volessero nascondersi dai nazisti. Ma proprio lo stesso giorno – come seppi dopo – i nazisti erano entrati nella Basilica di San Paolo per prendere persone, forse politici, là nascosti. Ricordo benissimo la notte passata a San Giovanni, in una camerata dove c’erano anche molte altre persone, specialmente uomini maturi, forse del mondo della politica italiana.
Ricordo bene perché, con mia sorpresa, mia madre non mi fece spogliare e rimanemmo tutta la notte vestiti, con la luce accesa, pronti a scappare se fossero arrivati i nazisti: una notte insonne e misteriosa per un bambino di cinque anni. Il giorno dopo tornammo nella casa della famiglia Ragionieri. Mio padre e mio nonno erano andati via più presto da San Giovanni per non fare un gruppo troppo visibile in strada e rivedo mia madre, mia sorella e le nonne a piazza San Giovanni in trepidante attesa del tram che non arrivava, mentre si avvicinava l’ora del coprifuoco.
Dalle suore Betlemite
Ma non rimanemmo nella casa degli amici a lungo. Dopo qualche giorno avvenne il trasferimento dalle Suore Betlemite, mentre gli uomini, mio padre e mio nonno materno rimasero presso i Ragionieri. Dunque io con le quattro donne (mia madre, mia sorella, e le due nonne) ci trasferimmo in questo Convento a piazza Sabazio, che non era lontano da Via Arno.
Il signor Alberto Ragionieri ci aveva potuto procurare delle identità false: ora eravamo una famiglia profuga dell’area di Napoli e il nostro nome era Pistolesi. Io mi chiamavo Roberto Pistolesi e, naturalmente, ero divenuto anche un bambino cattolico. Mia madre si preoccupava spesso di ricordarmi questa mia doppia identità, raccomandandomi di non scordare quel nuovo nome o ad esempio facendomi dire una preghiera in ebraico la sera prima di addormentarmi, ma preoccupandosi di portarmi in chiesa la domenica. D’altronde, come seppi dopo, anche le suore, salvo la Madre Superiora, non erano al corrente del nostra identità ebraica e perciò dovevamo in tutti i modi evitare di manifestarla, per impedire che, anche in modo del tutto casuale, si potesse sapere che eravamo nascosti lì, per salvarci dai nazisti.
Inoltre il Monastero accoglieva in quei mesi anche altri ebrei. Ma questo l’ho saputo a distanza di decenni perché ogni ospite stava separato dagli altri e la riservatezza, la segretezza delle vere identità era essenziale per la salvezza di tutti. Questa situazione di isolamento e di doppia identità anni è ancora scolpita nella mia mente dopo sessantacinque anni e certamente ha avuto un profondo effetto psicologico sul resto della mia vita.
Nel sottoscala
Cominciò così un lungo periodo di permanenza nel Convento delle Suore Betlemite, che durò fino alla Liberazione di Roma, il 4 giugno del 44. Come passava il tempo? È difficile a dirsi: il ricordo è stato soppresso dalla paura, dalla monotonia, dalla fragile incertezza di quei mesi. Ricordo che noi cinque eravamo tutti in una stanza nel sottoscala, poco distante dal portone d’ingresso del Monastero. Qui erano state messe quattro brande, dove dormivamo e c’era solo un mobile dove si tenevano i pochi abiti. La luce penetrava attraverso le inferriate, che si trovavano al livello del marciapiede esterno. Rammento anche che contro l’inferriata della finestra c’erano dei sacchetti di sabbia per impedire che dalla strada si potesse guardare con facilità dentro la stanza. Per andare al bagno bisognava invece salire al piano superiore.
È strano ma non ricordo bene come si mangiasse. Mi pare che ci fosse un tavolino dove ci appoggiavamo e dove ci portavano, in quel tempo di carestia per tutti, qualcosa di cucinato. Si mangiava, ricordo, molta verdura lessa, soprattutto broccoletti il cui sapore certo non mi entusiasmava. Il signor Ragionieri ogni tanto veniva a trovarci e ci portava qualcosa da mangiare che si procurava in campagna. Ma il ricordo è quello di un cibo povero e privo di sapori, un fedele ritratto delle nostre condizioni di vita in quei mesi, che al di là della paura ero troppo piccolo per capire. Il mio compito principale era quello di essere ubbidiente, di non dare fastidio, di non fare rumore, di non sporcarmi.
Bisogno di giocare e stare con gli altri
Ricordo anche che accanto alla nostra stanza c’era un’altra stanza, che fungeva da magazzino, con dei grandi mobili. A volte mia sorella ed io ci spostavamo lì per poterci muovere appena un po’ di più e giocare un po’, come ragazzini, ad esempio con le carte. Una volta Alberto Ragionieri mi portò da parte di mio padre un libricino per bambini piccoli con dei disegni: una gioia raramente provata negli anni successivi.
Quando arrivammo al Convento la bella novità fu il giardino interno e la scuola elementare che si trovava sul lato opposto del giardino. Le suore consentirono a me e a mia sorella di entrare nella scuola e seguire le lezioni. Era la mia prima elementare con una gentile suora come maestra. Ricordo ancora con quanto desiderio cercavo di imparare a scrivere.
Sempre più prigionieri
Ma questa grande novità positiva durò pochi giorni. Una mattina mia madre, attraversando il giardino per portarci alla scuola, alzando lo sguardo vide sporgersi da un balcone di un palazzo di fronte una persona che conosceva. Preoccupata giustamente di potere essere identificata, sia pure casualmente, ci proibì di andare in giardino e a scuola. Così terminò in pochi giorni la mia prima classe elementare e la possibilità, sia pure sotto falso nome, di stare in compagnia con altri bambini, di frequentare le suore maestre o di stare in giardino.
In pratica diventammo sempre più prigionieri di quella unica modesta stanza nel sottoscala, salvo qualche incontro saltuario sulle scale con qualche suora, che manifestava sempre una grande gentilezza verso di noi, unici bambini nel Convento. Così non mi sono mai dimenticato che la suora, che preparava le ostie per la domenica, ci chiamava per darci dei pezzettini residui. E in particolare ricordo il giorno di Pasqua di essere stato in chiesa e, come bambino, fui messo dalle suore davanti a tutti lungo il percorso della Via Crucis, all’interno della chiesa del Convento.
Suor Rita
Proprio per la condizione di grande isolamento di quei mesi, non ho mai dimenticato quel giorno quando mia madre mi concesse di uscire da solo con Suor Rita, una giovane suora che di tanto in tanto ci veniva a trovare e ci parlava. Quel pomeriggio addirittura uscii per mezz’ora con lei soltanto, perché lei si doveva recare ad un negozio di biancheria poco distante e mi chiese di farle compagnia per farmi uscire: per me è stato un episodio indimenticabile. Né mia sorella né io abbiamo mai dimenticato Suor Rita, anche a distanza di decenni e mia sorella l’andò a trovare, quando era già assai anziana, ad un Convento di Napoli dove era stata trasferita.
Ricordi
Ricordo anche qualche rara domenica mattina primaverile in cui uscivo dal Convento con mia madre e mia sorella per dirigerci verso Via Arno, dove stava mio padre, ed incontrarlo in strada, in modo fugace e sempre attenti a non dare nell’occhio e a non farsi riconoscere da nessuno.
Ma tra i ricordi c’è anche quello di una sera quando verso le 22,30 bussarono con insistenza al portone del Convento, proprio sopra il nostro nascondiglio. Il terrore si sparse tra di noi perché a quell’ora soltanto i soldati potevano essere in giro. Poi sapemmo che erano state delle persone conosciute dal Convento e in cerca di aiuto.
L’arrivo degli Alleati
Così passarono quei quattro mesi e mezzo, mai dimenticati e finalmente venne il 4 giugno, il giorno della Liberazione. Quelle ultime ventiquattro ore sono legate ad un altro ricordo. All’inizio della notte, nel silenzio sepolcrale della città di quei tempi, improvvisamente fummo svegliati dallo stridìo furioso di macchine che attraversavano a tutta velocità la curva della piazza Sabazio a poca distanza dalle inferriate della nostra stanza: un rumore da farci a lungo rabbrividire. Solo dopo comprendemmo che erano state macchine dell’esercito nazista in fuga per il prossimo arrivo degli Alleati. Così la liberazione dai fascisti e dai nazisti è per me, ancora oggi, innanzi tutto quel suono stridulo, lacerante, in cui il terrore si affianca alla gioia della libertà, quando il giorno dopo vedemmo sfilare a Viale Regina Margherita i carri armati alleati che entravano a Roma.
Il luogo che mi aveva salvato
Le suore Betlemite fanno parte della mia memoria e ricordo che dopo la guerra per tanti anni mia madre si è recata a salutare la Madre Superiora e talvolta insieme a me ancora piccolo. Al Convento ci sono tornato anche qualche anno fa, quando ho portato mia figlia e ma moglie a vedere il luogo che mi aveva salvato, perché la mia memoria facesse parte anche della loro. E per questo, con dedizione e profonda emozione, ho scritto queste poche righe, perché la memoria non andasse perduta.