Le sette parabole contenute in questo discorso esprimono il dinamismo del Regno nella storia, ma anche la presenza del male che lo contrasta. Nella parabola del seminatore (QUI), il male è all’opera nella superficialità del terreno, dove gli uccelli facilmente portano via il seme; nel terreno sassoso, che non permette alle radici di affondare; nel terreno spinoso, che presto soffoca il buon seme.
Le parabole successive rispondono alle domande aperte dalla parabola del seminatore: perché il seminatore non sradica le piante nocive? Perché è così piccolo e debole il seme? Perché sacrificargli tutto? Cosa accadrà alla fine?
La parabola della zizzania
La parabola della zizzania non ha paralleli sinottici. Zizzania è il loglio, una gramigna che cresce in mezzo al grano, alta quanto questo; gli somiglia, ma non è buona come nutrimento, e toglie terreno al grano buono; oltre tutto, non è neppure necessario coltivarla, cresce da sola.
La pazienza del seminatore non la estirpa, anche se è riconoscibile, ma le lascia tempo fino alla mietitura. Stupisce questa inazione del padrone: possibile che l’Onnipotente non sia capace di sradicare la zizzania senza fare di ogni erba un fascio? Non è lui che conta persino i capelli del nostro capo? Deve proprio aspettare la fine dei tempi, con grande pena dei giusti?
L’infinita pazienza di Dio
Il fatto è che il padrone ha a cuore anche la zizzania. Ce ne dà una spiegazione Sap 11,23-12,2 che si pone il problema della gradualità delle “piaghe” d’Egitto: perché l’Onnipotente non ha sterminato gli empi subito con belve feroci o con draghi terrificanti o semplicemente con il soffio della sua bocca, invece di punzecchiarli un po’ alla volta con zanzare, mosconi e cavallette? Ecco quello che l’autore del libro della Sapienza finalmente comprende:
«Hai compassione di tutti, perché tutto puoi,
chiudi gli occhi sui peccati degli uomini,
aspettando il loro pentimento.
Tu infatti ami tutte le cose che esistono […]
sono tue, Signore, amante della vita».
«Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano […]
perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore».
La parabola ci presenta l’infinita pazienza di un Dio che rispetta i ritmi di ciascuno fino al momento in cui l’eternità porrà fine allo scorrere del tempo. Così, il buon grano sarà raccolto nei granai senza che un solo chicco vada perduto, ma anche alla zizzania è data speranza: la speranza che la zizzania che è dentro di noi si converta e diventi grano. Così pure, il suo atteggiamento ci insegna che non si deve anticipare nei confronti del loglio il giudizio finale: la presunzione di poterlo fare corromperebbe anche i cuori dei giusti.
Anche nella Chiesa convivono grano e zizzania, luce e tenebre, di cui facciamo quotidianamente esperienza. Questa Chiesa santa e peccatrice, vivificata dalla santità di Dio e ferita dal peccato degli uomini, cammina nel tempo col suo passo stanco e lento ma sicuro, nelle tenebre, ma attratta e sorretta dallo splendore dell’eternità.
Dio affida il campo all’uomo
Anche in questo caso Matteo ne dà la spiegazione allegorica, precisa in tutti i dettagli: il seminatore è Gesù, il campo è il mondo, il grano buono sono i credenti in Cristo, la zizzania coloro che hanno accolto invece il maligno, il maligno stesso è il seminatore di zizzania, gli angeli i mietitori alla fine del mondo, quando tutti i nodi verranno al pettine. Ma originariamente la parabola parla piuttosto di pazienza e di misericordia.
Può sembrare assurdo pazientare tanto col rischio di danneggiare il buon grano: perché si deve tollerare la mala erba, quando il padrone del campo ben la conosce? Tuttavia, anche se il mondo è il campo conteso fra l’attrattiva di Dio e l’attrattiva del diavolo seminatore di zizzania, Dio affida il campo all’uomo, alla sua libertà di scelta.
L’uomo non è una preda in balìa di forze cieche che lo costringano; è un essere libero tra le braccia amorevoli del Padre, e niente lo può toccare a meno che l’uomo stesso non lo voglia. La zizzania, piuttosto, non è esterna a lui, è dentro di lui che non deve permetterle di crescere. Narra una favola che dentro ogni uomo è come vi fossero due cani in competizione, uno bianco, buono e amichevole, e uno nero, malvagio e aggressivo. Quale avrà il sopravvento? Quello che l’uomo sceglierà di alimentare.
Da dove venga la fiducia che il bene vincerà ce lo dicono le due parabole seguenti.
Le parabole della crescita nascosta: il granello di senape e il lievito (13,31-43)
L’avvento del Regno era atteso come un evento straordinario e potente. Al contrario, queste due parabole riguardano l’umiltà dei suoi inizi. Perché è così piccolo il seme di fronte ad un mondo tanto grande? Perché è così debole davanti a forze così schiaccianti? Non sarebbe stato meglio un inizio più promettente, da una realtà più consistente e vistosa?
Il granello di senape
Eppure, è proprio nel minuscolo seme che è racchiusa tutta la possanza dell’albero. Non ha importanza che il granello di senape non sia proprio il più piccolo di tutti i semi o che la sua pianta non sia il più grande degli arbusti. Il detto è solo proverbiale e la Bibbia non è un libro di scienze naturali, la sua verità non è quella scientifica ma di fede e di morale.
In ogni caso, avviene una crescita prodigiosa nel piccolissimo seme che si sviluppa nella grande pianta, e questa crescita è nascosta, misteriosa. Non proviene dalle capacità dell’uomo ma dalla forza di madre natura. Il Regno di Dio agisce nel nascondimento e nella ordinarietà: nella storia dell’uomo sono nascosti il seme della Parola e il lievito di Cristo che crescono dentro di noi nella vita di ogni giorno. Solo se il seme viene nascosto sotto terra, allora diviene pianta capace di dare rifugio anche agli uccelli del cielo. Attraverso il seme che muore, attraverso il dono della vita, il Regno di Dio crescerà. Le tribolazioni che lo afferrano e lo gettano nella terra possono farlo sembrare perdente, ma non lo sconfiggeranno.
Il pizzico di lievito
Anche il lievito deve essere sepolto nella pasta, appena un pizzico per una grande massa, per farla lievitare e crescere a dismisura. In questo senso, la parabola del lievito è la versione femminile (impastare il pane era mansione della donna) della parabola del seme (seminare era attività maschile).
Si può cogliere però un significato supplementare in queste due immagini. Il granello di senape, in Matteo, è simbolo di fede che sposta le montagne (17,20), e nella Bibbia c’è una sola donna che impasta tre staia di farina ovvero quasi mezzo quintale, bastante a sfamare cento persone: è la matriarca Sara (Gn 18,6) associata ad Abramo, il credente per antonomasia, nell’accogliere i tre viandanti. Il Regno di Dio si fonda sulla fede, una fede come quella dei patriarchi, ancora embrionale quanto ai contenuti ma grande quanto alla fiducia.
Le parabole del ritrovamento: il tesoro e la perla (13,44-46)
Ancora una coppia di piccole parabole, di argomento e di andamento simili tra loro, che risponde ad una domanda aperta dalla parabola del seminatore: perché sacrificare tutto al Vangelo?
L’azione, ridotta al minimo, si svolge in tre tempi: una persona trova un oggetto di valore, vende tutto il resto e lo compra – il processo che si innesca quando un uomo trova un tesoro nascosto in un campo o una perla di gran prezzo in mezzo alle cianfrusaglie. Chi trova un simile bene impegna tutto se stesso e tutti i suoi averi per procurarselo. Accadeva che in tempo di guerra gli oggetti di valore si seppellissero nel campo per sottrarli alla rapina degli invasori. Accadeva anche che nel mestiere della mercatura ci si imbattesse in una pietra di eccezionale valore. Chi trova un tesoro del genere, è logico che venda ogni altra sua cosa per accaparrarselo.
Chi sceglie questo investimento ha tutto da guadagnare. Così, la signoria di Dio su di noi deve essere preferita ad ogni altra cosa ed essere accolta subordinandole ogni altro bene. La nostra vita è piena di cose, di attività, di cianfrusaglie che ci soffocano, di abitudini che ci ingessano, di beni di consumo, ma nessuno di questi è il tesoro, la perla di gran prezzo. Il tesoro è nascosto dentro di noi, sta a noi portarlo alla luce…
Una parabola del discernimento: la rete da pesca (13,47-58)
Come nella parabola della zizzania, in quella della rete che raccoglie i pesci il tema centrale è il discernimento fra buoni e cattivi in contesto escatologico. L’accento però è diverso: la zizzania spiega la presenza del male nel mondo, la rete ci porta subito alla fine dei tempi quando irrevocabilmente gli empi saranno separati dai giusti.
Non vi siano equivoci sulla radicalità della sequela evangelica: la misericordia non è lassismo, vuole il bene dell’amato anche a costo di farlo soffrire. E il male esiste ed è ben chiaro, è quanto si oppone al disegno di Dio e si chiude in una sua logica egocentrica che esclude l’apertura agli altri e all’Altro che è il Signore, e deve essere respinto senza compromessi e auto illusioni.
L’epilogo
Ora, finalmente, i discepoli hanno capito. Ma l’evangelista ha ancora una parola da dire per suggellare il discorso delle parabole. C’è un’ultima similitudine: lo scriba del Vangelo è come un padrone di casa che trae dal suo tesoro nova et vetera, le cose più nuove e smaglianti insieme a quelle più antiche e pregiate, perché ciò che è valido nel passato non invecchia, è consacrato dalla tradizione.
L’esito dell’insegnamento di Gesù, però, sembra vanificato: a Nazareth egli non è altri che il figlio del falegname, e la sua famiglia è ben nota in tutta la cittadina. Tale dimestichezza rende difficile credere che questo giovane cresciuto in mezzo a loro possa essere altro che questo. L’insegnamento di Gesù nella sinagoga, perciò, va sprecato: è in atto la parabola del seminatore, che getta il seme a piene mani anche se l’abbondanza può andare dispersa. In qualche modo, questo rifiuto, esemplificando uno dei possibili terreni su cui il seme cade, il più ostico, fa da inclusione all’intero brano: si sente con gli orecchi ma non si ascolta col cuore, e le parole udite non sono che suoni dispersi al vento.
È l’ultima volta che Matteo menziona una sinagoga: sta avvenendo una divaricazione fra Gesù e il mondo giudaico. Quella che gli viene manifestata, e che ostacola il suo ministero taumaturgico, è apistia cioè mancanza di fede, ma forse sarebbe meglio intenderla come mancanza di fiducia, diffidenza. Sarà arduo persino per i discepoli comprendere chi Gesù realmente sia.