
A questo punto, penso che tutti abbiano la curiosità di sapere a che cosa corrisponda la figura dell’architriclino, il maestro di tavola, quello che avrebbe la responsabilità di tutto ma non si accorge di nulla, nemmeno della provenienza del vino buono… Una figura comica che alleggerisce il tono elevato del racconto, eppure vi svolge un ruolo importante.
Una catena di risposte
Il ruolo dei servitori della Parola
Come la madre di Gesù ha detto ai servi di fare qualunque cosa egli dicesse (legē), Gesù dice loro (legei) che cosa fare (2,7 a), ed essi rispondono con una obbedienza senza parole. È la loro obbedienza, la loro fede, ad operare di fatto il miracolo, che Gesù compie solo indirettamente. È nelle mani di questi ascoltatori fedeli della Parola che il vino della gioia viene distribuito ai partecipanti al banchetto. La trasformazione dell‘acqua in vino non è raccontata: è l‘architriclino a gustare il vino nuovo senza sapere da dove viene (póthen estín), mentre i servi lo sanno.
Il vino è, cioè, il risultato di una catena di risposte a una serie di parole: la parola della madre che indica la parola di suo figlio (2,5), e due parole di Gesù (2,7 s.). L‘importanza dell‘accettazione della parola di Gesù è un tema cruciale. La scena si conclude con le parole dell‘architriclino, senza che si menzioni la reazione degli altri convitati e senza che Gesù – o l‘evangelista – intervenga per spiegare il significato del gesto. L’ultima parola è la sua.
L’architriclino
A questo personaggio l’evangelista affida il compito di spiegare il senso del segno, senza che egli ne sia consapevole, come a Caifa, nella sua qualità, per quanto indegna, di sommo sacerdote, toccherà di profetizzare inconsapevolmente e involontariamente il senso più profondo della morte di Gesù (Gv 11).
Le parole dell‘architriclino implicano che dallo sposo venga questa meravigliosa abbondanza di vino buono, il che non è. Alcuni elementi del racconto sono bizzarri:
- i servitori eseguono senza discutere le disposizioni di un ospite senza intervento del maestro di tavola,
- i discepoli non compaiono nella scena centrale ma solo nella cornice,
- l‘usanza menzionata dall‘architriclino non ha riscontro nel mondo antico.
Più che di un fatto di cronaca, si tratta di una narrazione teologica che va compresa, a partire dal ruolo dei personaggi.
La complessità del quadro
Nel quadro temporale del terzo giorno, a Cana in un contesto di nozze, si muove un gruppo: Gesù, sua madre, i suoi discepoli, cui la conclusione poi aggiunge un ulteriore sottogruppo: i “fratelli di Gesù” (v. 12). Si è costituita, cioè, per la fede dei discepoli, la Chiesa: “lui, sua madre, i fratelli e i suoi discepoli”. Una comunità strutturata, pronta per il proprio cammino insieme a lui.
Dentro la cornice, si svolge un dialogo a più interlocutori:
- la madre,
- Gesù,
- i servitori (muti, ma destinatari ed esecutori di un comando, quindi in rapporto con la Parola di Gesù, simboleggiano i discepoli divenuti servi della Parola),
- l‘architriclino.
Di tutti questi personaggi, solo Gesù e i servitori (diakonoi) sono sempre presenti con menzioni esplicite (vv. 5.7-9), mentre la Madre figura solo nella prima scena (vv. 3-5), l‘architriclino nella seconda (vv. 8-9). C‘è, quindi, un passaggio dalla madre all‘architriclino, del quale Giovanni fa una triplice menzione (vv. 8-10). Questo termine, un termine raro, è qui oggetto di una particolare insistenza, che deve avere un qualche significato: quale?
Egli non sa ma i servi sanno…
Il personaggio appare perplesso, superato dalla situazione (vv. 9-10). Da prendere in considerazione il fatto che al centro del passo che lo coinvolge (vv. 9-10) si trova il tema del “sapere”, e questo ci indirizza verso una rivelazione. I servi (diakonoi) e i discepoli (mathetai,) rappresentano in diverso modo la comunità cristiana incipiente, cui la Madre consegna il Figlio (così come ai piedi della croce sarà il Figlio a consegnare la Madre alla comunità).
L‘architriclino dovrebbe invece rappresentare il mondo giudaico ufficiale, al quale viene presentata la primizia della rivelazione, e che assiste inconsapevole al dono messianico del vino nuovo, senza rendersi conto della sua provenienza “dall‘alto”. I servi hanno cominciato a conoscerlo, egli permane invece nella sua ignoranza, pur vedendo gli effetti del vino buono dato dallo Sposo, che non è, come lui crede, lo sposino di paese, ma il Signore che inizia a dare i segni della sua Gloria.
In considerazione di questo, si deve riconoscere come egli svolga una funzione di testimonianza involontaria e perciò indubitabile nei confronti di un vino che, dato da Gesù in contrapposizione all‘acqua delle istituzioni giudaiche. La situazione, veramente paradossale, è tale perché deve risultare provocatoria: l‘architriclino, il maestro di tavola, è colui che deve rispondere della buona riuscita del convito, è il responsabile della mensa di fronte allo sposo, e in quanto tale assaggia il vino e lo trova eccellente, e tuttavia, osserva l‘evangelista, non sa da dove (póthen) provenga, mentre lo sanno i servi che hanno attinto l‘acqua (Gv 2,9b).
… da dove proviene il vino buono
Il “dove”, póthen, nel Quarto Vangelo è connesso con l‘identità misteriosa di Gesù e l‘origine dei suoi doni salvifici: lo Spirito, l‘acqua, il pane (Gv 3,8; 4,11; 6,5). I giudei non sanno da dove viene Gesù, mentre egli lo sa (Gv 7,27-28; 8,14; 9,29-30; 19,9), e i suoi servi con lui. L‘elogio allo sposo di Cana è in realtà un elogio rivolto a Gesù, il vero sposo atteso da Israele (cfr. Gv 3,29); il vino che è stato conservato “fino ad ora” ―è la rivelazione piena e definitiva che succede alle rivelazioni parziali e imperfette precedenti.
Da Cana a Betania: Gesù è lo Sposo
Del resto, nelle parole inconsapevoli dell‘architriclino risuona il verbo conservare (teréo) riferito al vino migliore di Cana, dato all‘ultimo: le sue parole possono richiamare la tradizione giudaica che vuole che il vino appena creato sia stato messo da parte e conservato sotto il trono di Dio per i giorni del Messia (Tg Jerushalmi Gen. 27,25; Tg Cant. 8,2; Berakot 34b)229.
Il verbo teréo tornerà, probabilmente in modo intenzionale, ad indicare l‘azione che Maria di Betania dovrà compiere nei confronti dell‘olio profumato di vero nardo (Gv 12,3-7), conservandolo per ungere il corpo di Gesù, con un‘espressione sponsale di Parola data ed effusa e di corpo donato. Il profumo di Betania, del resto, è un tema sponsale molto diffuso nel Cantico dei Cantici (Ct 1,2 s.; 4,10-16; 7,9 s.; 8,14). Abbiamo, quindi, questo tema nuziale che corre da Cana a Betania, da un capo all’altro del IV Vangelo. Notiamo, tra l‘altro, che il profumo riempie (verbo pleróo) la casa di Betania così come i servi avevano riempito le idrie di Cana di quell‘acqua che sarebbe divenuta il vino nuziale dello sposalizio messianico.
Il fatto che lo sposo non parli mai, ma si limiti ad ascoltare le ciance dell‘architriclino, introduce qui un‘ironia: chi ha provveduto in realtà il vino, le cui origini sono sconosciute all‘architriclino, rimane ignoto ad un personaggio che risponde agli eventi in modo puramente terreno. Il segno di Cana dà ben altro che del buon vino! L‘architriclino, che avrebbe dovuto provvedere a che niente mancasse alla letizia degli sposi, rimane ignaro del corso degli eventi: non si accorge che il vino è mancato, né che ne è stato dato del nuovo trasformando l‘acqua degli antichi riti di purificazione. È il paraninfo ma sia lui che lo sposo e la sposa di Cana, che sarebbero i protagonisti della festa del villaggio di Galilea, sono tutti inconsapevoli di quel che realmente accade.
Attenzione, sembra dire qui l’evangelista, a non fare come loro…