Lettura continua della Bibbia. Osea: il racconto autobiografico e l’amore di Dio

Il profeta Osea. Autore ignoto, 1681. Francoforte, chiesa di S. Caterina. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=327272

Il capitolo 3 del libro di Osea costituisce quanto ci è rimasto di un racconto autobiografico del profeta, probabilmente in origine più esteso e più ricco di particolari, resi ormai superflui dal racconto biografico del cap. 1.

Nel contesto attuale, il brano serve a concretizzare i termini del castigo e della conversione di Israele. Osea è invitato a riprendersi la donna che era sua ed è stata di un altro: non ostante tutto, il Signore ama ancora il suo popolo. Osea riacquista la donna al prezzo di una schiava adulta (metà in denaro e metà in natura), essendo ella divenuta proprietà altrui. Le impone un periodo di astinenza assoluta, di purificazione: Israele rinuncerà alla sua monarchia, al suo culto idolatrico, alle tecniche di divinazione (“efod” e “terafim”), alle istituzioni che le davano sicurezza. Ciò equivale alla perdita di identità nazionale, attraverso la deportazione. Nella loro desolazione, gli israeliti ritorneranno (verbo SHÛB) al loro Dio, lo cercheranno (verbo BIQQESH).

Questo brano, commenta Martin Buber (La Fede dei Profeti, p. 113), è redatto in uno stile martellante: per quattro volte ritorna nella stessa frase (3,1), il discorso di Dio in prima persona, il verbo decisivo, amare, ogni volta in un tipo di relazione diversa:

  • l’amore onesto di un uomo per la sua donna,
  • l’amore disonesto, adulterino, che spezza il legame,
  • l’amore di Dio per Israele,
  • l’amore di Israele per gli altri dèi (suggeriti dall’immagine delle focacce rituali).

Il primo verbo è all’imperativo (AMA!) ed è un’espressione singolare, perché non si riferisce ad un oggetto generale (Dio e gli uomini, o il bene, la virtù), ma ad una persona specifica. Ma come si può comandare l’amore?

Si può comandare l’amore di Dio?

«Questa parola può essere rivolta solo a uno che già ama. Egli ama, ama ancora sempre la donna infedele, non può resistere a questo amore, ma non vuole questo amore, dal quale si ritiene umiliato, la reazione personale è in questo momento più forte che l’imitatio Dei, e la relazione personale è conflitto e vergogna; in questa situazione irrompe la parola di Dio: “Ama ancora, tu puoi amarla, tu devi amarla; proprio così io amo Israele”. Dalla sfera di Dio, di colui che ama in eterno, viene restituito al sentimento dell’uomo il suo diritto» (M. BUBER, Op. cit., p. 113 s.).

È singolare anche il fatto che Osea non usi mai il verbo amare, neppure all’imperativo, per esprimere il rapporto di Israele verso JHWH.

«Osea dice tutto l’essenziale sull’amore di Dio. Primo: è un amore esigente… Secondo: è un amore adirato. JHWH assicura (9,15) di aver concepito un odio contro Israele, di volerlo cacciare dalla sua casa, di non poter più continuare ad amarlo. Terzo: è un amore misericordioso. JHWH promette (14,5): ‘Io guarirò la loro infedeltà, li amerò volentieri’. Questi sono discorsi di quel ‘Dio geloso’ del Sinai, proprio lui: lo stesso esigere (Es. 20,3-5°), adirarsi (v. 5b) e Aver misericordia (v. 6) che incontriamo là, tradotti nel linguaggio di una grande storia d’amore, di una storia di colpa e di purificazione. Certo, tutto ciò è fortemente antropomorfico, ma penso che, se Osea avesse dovuto spiegarcelo nel nostro linguaggio concettuale, avrebbe detto che a salvaguardare il teomorfismo dell’uomo è stato solo il fatto che Dio si è comportato continuamente in maniera così antropomorfica» (M. BUBER, Op. cit., p. 114).

Tuttavia, proprio in Osea manca l’espressione linguistica dell’amore di Israele per il Signore. Si trovano testi che parlano dell’amore per Dio:

  • nel Decalogo (Es 20,6: “coloro che mi amano”)
  • nel cantico di Debora (Giud 5,31: “coloro che ti amano siano come il sole, quando sorge con tutto lo splendore”)
  • e nella storia deuteronomista (più volte nel Deuteronomio, inoltre in Gios 22,5; 23,11).

La conoscenza di Dio

Proprio nel profeta dell’amore, invece, che esprime in modo così intenso l’amore di Dio, manca questo uso linguistico. In Osea il Signore accusa il popolo di essersi allontanato da lui prostituendosi, ma non dice di pretendere l’amore. Questo termine in Osea non definisce la reciprocità tra Dio e uomo, così come lo chesed di Dio, la sua benevolenza, non comporta reciprocità fra Dio e popolo, ma esprime un legame che promana da Dio «e deve diffondersi attraverso il popolo» (M. BUBER, Op. cit., p. 114 s.).

È il CONOSCERE, in Osea, l’autentico concetto della reciprocità fra Dio e il popolo, ed è naturale, in quanto il pensiero di Osea è dominato dall’immagine del matrimonio. Già in Amos (3,2) Dio dichiara di aver conosciuto solo Israele fra tutte le famiglie della terra (questa immagine esprime la rivelazione e la stipulazione dell’alleanza), ma in Amos non si delinea la reciprocità.

Osea riprende l’espressione di Amos (13,5: “ti ho conosciuto nel deserto”, dice JHWH a Israele) ma la fa precedere da un’espressione di reciprocità: “tu non conosci un Dio fuori di me” (13,4) (per non cadere nel relativismo religioso = ogni popolo il proprio dio, Osea aggiunge: “non c’è nessun liberatore oltre a me”) (M. BUBER, Op. cit., p. 116).

Mentre per Amos il peccato fondamentale è l’ingiustizia, per Osea è il rifiuto di ricambiare da uomo la conoscenza che Dio ha di lui, per praticare il baalismo (il sincretismo religioso che cerca di baalizzare JHWH stesso). La lotta particolare di Osea è contro i luoghi di culto, il “vitello” di Samaria (8,5; 10,5; 13,2) e la prostituzione sacra (4,14: «non punirò le vostre figlie, perché si prostituiscono, né le vostre nuore perché commettono adulterio; perché loro stessi si appartano con le prostitute, con le prostitute sacre offrono sacrifici. Un popolo, per non aver senno, va in rovina!»).