
L’interpretazione più diffusa riconosce nell’Agnello giovanneo l’Agnello pasquale, sulla base della tradizione primitiva del Cristo che, “nostra pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7). Questa tradizione è esplicitata anche da 1Pt 1,18 s… “Siete stati riscattati… per mezzo del sangue prezioso di Cristo, come di agnello puro e senza macchia”. L’interpretazione dell’Agnello di Dio come l’Agnello pasquale, dunque, esisteva precedentemente a quella che può essere stata l’utilizzazione che ne fa il Vangelo secondo Giovanni.
L’Agnello pasquale
L’immagine sarà ripresa nella letteratura cristiana primitiva. Scrive S. Giustino: “Era infatti la Pasqua il Cristo, il sacrificio finale, come anche Isaia disse: Egli come pecora davanti al macello sarà condotto” (Dial. Trypho 111).
A favore dell’interpretazione che identifica l’agnello di Dio giovanneo con l’agnello pasquale stanno parecchi elementi. In primo luogo dobbiamo considerare il prologo teologico (1,14-17) in cui Gesù è presentato in chiave esodica, cioè in chiave pasquale. Di tal genere sono l’attendarsi di 1,14; la nuova comunità di 1,14.16; la nuova alleanza di 1,15.17; il raffronto Gesù-Mosè in 1,17.
Alla luce del prologo, l’Agnello di Dio si intende riferito all’agnello pasquale, unica interpretazione, questa, che collimi soddisfacentemente con il resto del IV Vangelo, disseminato di simboli pasquali.
L’Agnello e il tema pasquale nel IV Vangelo
Delle sei feste citate nel IV Vangelo (2,13 ss.; 6,4; 11,55; 12,1; 13,1), la prima, la centrale e l’ultima sono feste di Pasqua. Il tema della manna, e della carne e del sangue, nel cap. 6, è prettamente pasquale. L’ora di Gesù è espressa come passaggio da questo mondo al Padre (13,1).
Ripetute sono le menzioni della Pasqua nel Racconto giovanneo della Passione (18,28.39; 19,14; cfr. 13,1) e in tutto il IV Vangelo (2,13.23; 6,4; 11,55; 12,1), mentre i Sinottici (escluso Lc 2,41) fanno riferimento alla Pasqua solo in occasione dell’Ultima Cena.
Nel Racconto della Passione
L’osservazione relativa all’ora della condanna (19,14) porta a far coincidere l’ora della morte di Gesù con l’ora in cui i sacerdoti immolavano gli agnelli pasquali nel Tempio (M. Pesah. 5,1: quando la pasqua cadeva alla vigilia del sabato, l’agnello doveva essere immolato dopo l’ora sesta): non è detto, però, che la cronologia giovannea abbia valenza simbolica e non derivi piuttosto da una antica tradizione alternativa a quella dei sinottici.
L’affermazione di Gv 19,29 che a Gesù fu porta una spugna, imbevuta di aceto, su di un ramo di issopo, e la menzione del sangue (19,34) rappresentano altrettanti allusioni pasquali. L’issopo doveva essere usato per aspergere col sangue dell’agnello pasquale gli stipiti delle porte, cfr. Es 12,22. La relazione di Gv 19,36 “Non gli sarà spezzato alcun osso” con il divieto di spezzare le ossa dell’agnello pasquale di Es 12,46 e Num. 9,12 appare evidente. La prescrizione rabbinica di aprire il cuore dell’agnello per farne sgorgare interamente il sangue (Pesah. 74b), che non doveva essere consumato (questo valeva anche per l’olocausto quotidiano: Tamid 4,2,75, sembra rappresentare il sottofondo dell’azione della trafittura del cuore.
Agnello pasquale e Servo
Il tema pasquale, insomma, domina il IV Vangelo. In pratica, l’annuncio del Battista serve da introduzione all’idea-guida di Gesù come agnello pasquale che viene tratteggiata attraverso tutto il Vangelo, e trova compimento nel Cristo elevato sulla croce, cui non viene spezzato alcun osso. E. Zolli sottolineava come anche nella sera del congedo – questo non è un elemento presente nella Cena giovannea, tuttavia lo è nel cap. 6 del IV Vangelo – Gesù si sia identificato con l’agnello pasquale (“Questa è la mia carne e questo è il mio sangue; mangiate e bevete”), dando nel contempo la sua vita come il Servo del Signore. Agnello e Servo, ribadiva Zolli nel suo studio del 1938, quando ancora era rabbino capo di Trieste: “Questa connessione di idee è il nucleo più intimo del cristianesimo. Ognuna di queste due idee a sé stante ha la sua storia nella passata vita d’Israele; ma qui vengono poste in una relazione tale da riuscire una perfetta antitesi al genuino pensiero ebraico, da costituire la linea di demarcazione tra la dottrina antica e la nuova” (Il Nazareno, 268).