
La pecora è il più importante e il più diffuso animale domestico dell’antichità, e l’animale di gran lunga più nominato nella Bibbia: 533 volte per le varie denominazioni sotto cui compare e 198 volte sotto il termine collettivo di gregge. Sono menzionati distintamente la pecora (rachel, greco probaton); l’agnello che nella Bibbia è chiamato kebes, keseb, in greco arnos, arnion e amnos; seh che indica anche il capretto; l’ariete (’ail, greco krios). A differenza dei bovini, le pecore si accontentavano di pascoli magri, quindi erano allevate anche nelle regioni semidesertiche. Ovviamente, erano allevate per la lana, ma anche per la carne.
L’agnello nella Bibbia: l’agnello sacrificale
Nell’antichità biblica, Israele condivide con gli altri popoli la pratica del sacrificio cruento. Il tempio di Gerusalemme è colmo del fumo dei sacrifici che consumano le vittime animali.
Queste vittime, vitelli, agnelli, capretti, colombi, tortore, sostituiscono nel sacrificio gli esseri umani che le immolano, in atto di espiazione, riparazione, supplica, o celebrazione di lode. Non deve stupire la sussistenza dei sacrifici per tutto l’arco della storia veterotestamentaria, perché questa è la cultura dell’epoca. La Scrittura parla il linguaggio dell’uomo; ed è un linguaggio duro, «per la durezza del loro cuore», per l’incapacità degli uomini, a quell’epoca, di pensare più alto.
Col passare del tempo, si afferma una maggiore sensibilità di cui sono testimoni i libri più recenti. Ad esempio, l’autore dei libri delle Cronache esprime una spiritualità incentrata sul canto che loda Dio, il canto sacro, più che sul sacrificio animale. La letteratura profetica contesta alla radice la validità di offerte solo formali, chiedendo un autentico comportamento di giustizia e di misericordia verso i deboli e richiamando radicalmente alla giustizia sociale. La lotta combattuta dai profeti non è diretta contro il culto del tempio, ma contro un culto che, non sostanziato dalla giustizia, finisca per unire offerte e iniquità: «Misericordia voglio e non sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti…» (Os 6,6).
Nel Nuovo Testamento

La rivelazione neotestamentaria poi libera il popolo di Dio dai sacrifici animali. Nel IV Vangelo, nelle parole del Battista, Gesù è il vero Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29.36): così Giovanni Battista presenta Gesù quando questi compare sulla scena.
L’agnello pasquale era prefigurazione di lui, Gesù il Cristo: avverandosi la realtà simboleggiata, la prefigurazione non è più necessaria né opportuna. Il sacrificio di Cristo, vero Agnello donato da Dio, ha posto fine alle liturgie compensatorie. Recandosi al tempio, Gesù libera le vittime sacrificali (che Giovanni ha cura di specificare nelle tre categorie previste, bovini, ovini e colombe: Gv 2,14). Queste sono allontanate dal santuario, mentre è il Cristo colui che sarà divorato dalla morte e restituirà agli uomini la vita con la sua resurrezione (Gv 2,13-22). Il contesto è pasquale, quello di una festa di liberazione e di vita. Il sacrificio perfetto e definitivo sarà il suo.
Quale che fosse la validità dei sacrifici antichi, dal 70 d.C., in assenza del tempio, essi non esistono più; Gesù poi si è dato ai suoi nei segni conviviali del pane e del vino, elementi non cruenti sostitutivi del sacrificio animale. Le vittime animali, surrogatorie, nella loro innocenza, degli esseri umani colpevoli, prefiguravano il Cristo nell’offerta della sua vita in riscatto della moltitudine. L’agnello pasquale, non più consumato dai fedeli ebrei in quanto non più sacrificabile in assenza del tempio, non ha più senso che venga consumato dai cristiani perché sostituito una volta per tutte dal vero Agnello di Dio, il Cristo.