Siamo arrivati alla seconda unità compositiva, ancora di dialogo tra Lei e Lui, così costituita:
- due canti della donna, uno lungo e uno corto: 2,8-17 + 3,1-5
- due canti dell’uomo, uno corto e uno lungo: 4,1-7 + 4,8-5,1
- tra i due, una voce fuori campo (coro o poeta): 3,6-11.
L’unità letteraria è data e dimostrata dalle indicazioni di tempo:
- «alzati, amica mia» (2,10)
- le ombre della sera (2,16)
- la notte (3,1; 3,8).
La voce (2,8-9)
2 8Una voce! Il mio diletto!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.
9Somiglia il mio diletto a un capriolo
o ad un cerbiatto.
Eccolo, egli sta
dietro il nostro muro;
guarda dalla finestra,
spia attraverso le inferriate.
Il Diletto e la Voce
Questo brano celebra un appuntamento di primavera. È delimitato da un’inclusione: da 2,8.9 a 2,16.17 sono ripresi i termini «il mio diletto», cerbiatto, capriolo, monti.
Compare per la prima volta la parola DÔD, che ricorre ben 33 volte nel Cantico al singolare, sempre con suffisso possessivo, e sempre pronunciata dall’amata. Ricorre una volta al plurale, in 5,1, designando i due amanti, i «cari». Fuori del Cantico, si trova solo in Is 5,1.
È una forma infantile di affettuosità verbale, come il nostro «tato». Indica però anche lo zio paterno, forse il cugino (il più probabile futuro marito di una fanciulla). La radice DD o JD in ugaritico significa amare e ne deriva l’ebraico JEDÎD = amico (in senso di tenerezza).
Il saltare per i monti, più che il superare gli ostacoli, indica originariamente l’habitat selvaggio, il carattere dionisiaco dell’amore.
Gli animali qui compaiono al maschile, con un effetto speculare. Il capriolo corrisponde alle gazzelle, il cervo alle cerve. Il muro indica le difficoltà dell’amore; la casa è simbolo dell’accoglienza della donna.
La Voce richiama inevitabilmente la Rivelazione divina al Sinai: il Dio di Israele non si manifesta attraverso una figura, ma attraverso la sua Voce, e Israele è il popolo dell’ascolto.
La lettura in relazione ai fatti dell’Esodo è esplicitata nel Targum.
Il Targum
Anche il Cantico, come quasi tutto il resto della Bibbia ebraica, fu tradotto in aramaico per consentire agli ebrei palestinesi, che non capivano più l’ebraico, di comprendere le letture in sinagoga. Nacque così il Targum, parola che significa Traduzione e che comprende tutte le antiche traduzioni aramaiche del testo sacro. Poiché contengono anche un commento, i Targumim, più che traduzioni letterali, sono parafrasi.
Inizialmente, i rabbini consentirono le traduzioni aramaiche, purché non venissero messe per scritto, a indicare che il vero testo sacro era la Bibbia ispirata da Dio in ebraico, non le traduzioni che erano opera umana. Successivamente si ammise che il Targum venisse scritto, ma in sinagoga doveva essere usato in questo modo:
- il lettore leggeva in ebraico un brano della Scrittura, tenendo sempre lo sguardo fisso sul testo scritto, anche se lo sapeva a memoria, a significare che la Parola che proclamava non era sua, ma di Dio;
- il traduttore (meturgheman) recitava in aramaico la traduzione, senza avere nessun testo davanti, quindi a memoria, per mostrare che la traduzione era opera umana e come tale non era degna di essere conservata.
Nell’interpretazione targumica, il traduttore così spiega il v. 9:
«Nel momento in cui la gloria di YHWH fu rivelata in Egitto la notte della Pasqua ebraica e uccise ogni primogenito, cavalcò su veloce nube di tuoni e corse come una gazzella o un’ala di un’antilope e ha protetto le case dove eravamo. E si fermò dietro il nostro muro e guardò attraverso la finestra e sbirciò attraverso l’inferriata. Ed Egli vide il sangue del sacrificio della Pasqua e il sangue della circoncisione che era segnato sulle nostre porte, ed Egli si affrettò dal cielo più alto e vide il Suo popolo mangiare il sacrificio della festa della Pasqua, arrostito al fuoco, insieme con erbe amare e indivia e il pane non lievitato, ed Egli ha avuto pietà di noi e non ha permesso che l’Angelo distruttore ci distruggesse».
È chiara l’applicazione alla notte della Pasqua e della liberazione di Israele.