La voce che ordina ad Abramo di sacrificare il proprio figlio non somiglia per niente alle voci divine da lui udite in precedenza, che gli avevano sempre rivelato un Dio di amore, il Dio delle benedizioni e delle promesse. Come avrebbe potuto questo Dio di Amore trasformarsi bruscamente in un Dio della morte che viola tutti i suoi impegni? Ci sono alcune interpretazioni rabbiniche che attenuano l’atrocità della richiesta divina.
La voce che ordina: i due nomi divini
Il nome che la Bibbia attribuisce all’istanza che chiede ad Abramo di offrire il figlio in sacrificio è Ha-Elohim, Il Dio, in contrastocon il Nome divino che poi gli impedisce di uccidere il figlio, il Tetragramma, JHWH. Poiché il soggetto della richiesta è Elohim, nome comune e generico di entità soprannaturale, secondo una di queste interpretazioni questo Elohim, preceduto dall’articolo (il dio), sarebbe addirittura il diavolo (come entità soprannaturale) che vuole indurre Abramo a compiere un atto abominevole. Il Signore Jhwh, poi, impedirà il sacrificio. Secondo Sanh. 89b (Talmud B.), la richiesta del sacrificio del figlio è demoniaca; secondo Ta’anit 4 a (Talmud B.), i sacrifici umani menzionati in 2Re 3,27 (il figlio primogenito del re di Moab), Gdc 11,30-46 (la figlia di Jefte) e Gn 22 (Isacco) provengono tutti da iniziative puramente umane.
Secondo alcuni commentatori giudaici, è dunque il Satana a spingere Abramo ad interpretare l’appello divino come un incitamento ad uccidere il figlio: come Isacco, anche Abramo sembra cedere alla tentazione di una follia sacrificale, comprendendo l’ordine di far salire il figlio sul monte Moriah come ordine di offrirlo in olocausto. Perciò, il vero senso della prova sarà quello di superare la tentazione sacrificale, ritrovando, dietro le ambiguità di ciò che ha sentito o creduto di sentire, la voce del Dio d’amore che l’aveva guidato fin là.
Alcuni commentari giudaici suggeriscono che Abramo abbia in certo modo interiorizzato la voce demoniaca nel senso di una consapevolezza dolorosa di incompiutezza, di una mancanza di fervore religioso per non avere offerto a Dio neppure una tortorella o una colomba, e quindi del bisogno di provare a Dio e agli uomini l’intensità del suo amore. Secondo un’altra versione, sarebbe Isacco stesso, in una gara di zelo con il fratello Ismaele, a offrirsi in sacrificio (Genesi R. 55,4).
Un gioco di parole
Ma la interpretazione più interessante, che presenta anche un filo di umorismo, è quella secondo cui Dio chiede una cosa e Abramo ne capisce un’altra: Dio comanda ad Abramo di far salire il figlio su un monte, in vista di una salita (con un verbo che è il termine tecnico che designa l’olocausto, che sale in fumo). «Io ti avevo detto “Fallo salire sul monte”, e tu hai capito “Offrilo in olocausto”? Adesso fallo scendere!» (Genesi R. 56,8). L’equivoco è basato su un gioco di parole possibile solo in ebraico, dove il verbo ‘alah, che significa “salire”, ha anche il significato di offrire in olocausto, cioè far salire la vittima (in fumo), visto che nell’olocausto tutta la vittima veniva bruciata. Abramo, nel suo zelo, avrebbe compreso la richiesta divina nel suo significato più rigoroso e duro, mentre Dio aveva solo chiesto di offrire spiritualmente il figlio.