Viaggio nella Bibbia. La prova di Abramo: la vita umana è sacra

Salto nel buio
Andrea del Sarto, Sacrificio di Isacco (1527 circa). Pubblico dominio,  https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15863529

Un salto nel buio. È quello che Abramo si sente chiedere, molto tempo dopo che Dio gli aveva rivolto la promessa: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza» (Gn 15,5).

Possiamo immaginare Abramo che esce da questa esperienza di incontro notturno con Dio con gli occhi pieni di stelle. Aveva espresso il suo dubbio, il suo rammarico, la sua amarezza, ma la rassicurazione divina era stata piena, limpida, luminosa come il cielo stellato.

Il verbo della fede

Abramo è il padre di tutti i credenti. Il verbo ’aman / credere, di così fondamentale importanza nella Bibbia, compare per la prima volta in relazione ad Abramo: «Ed egli credette al (o nel) Signore» (Gn 15,6). Lo splendore di quelle stelle lo avrà accompagnato per tutta la vita, un altro quarto di secolo prima di vedere il compimento della promessa; e altri sette lustri per vedere il figlio della promessa divenuto uomo. Ancora questo splendore negli occhi, e poi… «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,2).

Ora, Abramo aveva indubbiamente molto penato prima di arrivare a questo punto; due successivi rapimenti della sposa; il dissidio col nipote e poi il suo sequestro, la guerra e il recupero di Lot; la prolungata sterilità della moglie, la discordia fra le donne… Mettiamo pure, nella sua storia, anche il dolore per le nefandezze che venivano commesse a Sodoma, dove lo straniero veniva considerato merce da usare e non ospite sacro da accogliere e servire. Il cap. 19, che narra la distruzione di Sodoma, è pieno di violenza, e il mondo in cui vive Abramo è un mondo duro. Tutto comunque viene superato, affanno dopo affanno, come in una corsa ad ostacoli. Ma per questo atleta della fede non è finita: adesso gli si chiede lo sforzo supremo, l’estremo sacrificio.

Il racconto del sacrificio di Isacco, nel capitolo 22 del libro della Genesi, è costituito da una narrazione in apparenza assai semplice e in realtà assai complessa e tutta da capire. Perché qui non si tratta di una sofferenza permessa da Dio. Questa è inflitta. Che senso ha?

La vita umana è sacra

Innanzi tutto, questo racconto delle origini mette in luce che Dio non vuole i sacrifici umani. Israele viveva allora, e vivrà per molti secoli, in un tipo di cultura in cui i sacrifici umani erano praticati; anzi, ad essere sacrificati erano proprio i figli. Si trattava di un rito magico; sacrificare ad una divinità ciò che di più prezioso l’uomo possedesse significava propiziarsela e forzarla a fare la volontà dell’offerente, come a dire: Guarda che cosa ho fatto per te, adesso tu farai quello che voglio io. Il sacrificio umano era il più pregiato, quindi era appetibile per ottenere l’esaudimento dei propri desideri. Quello che per noi è un orrore inconcepibile, per Abramo come per i suoi contemporanei era una prassi normale e diffusa.

Il rifiuto, che Dio manifesta, del sacrificio del figlio, vuole precisamente vietare questa abominevole usanza. Ma c’è di più.