In questi versetti finali del primo capitolo (Gc 1,19-27), Giacomo spiega che la religione è lo strumento attraverso il quale noi possiamo raggiungere la felicità, la beatitudine (Gc 1,25). Ma qual è la vera religione?
Docilità alla Parola
Giacomo 1 19 Lo sapete, fratelli miei carissimi: ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. 20 Infatti l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio.
Pronto all’ascolto, lento al parlare e lento all’ira. La prontezza riguarda la docilità nell’accoglienza della Parola, ma nella sua parola e nella sua azione l’uomo non deve essere affrettato. Deve prevalere la ponderatezza.
Infatti, come può in concreto l’uomo realizzare questa sua chiamata ad essere beato? Anzitutto l’uomo deve imparare ad ascoltare, anzi deve essere “veloce ad ascoltare”.
Se l’uomo non impara ad ascoltare non ci può essere conoscenza di Dio, della sua volontà, né conoscenza profonda di se stessi e degli altri. E quando non c’è conoscenza, quando non ci si rende conto della complessità delle vicende, se ne disconosce la ricchezza e si finisce, talora, anche ad essere ingiusti e disattenti.
Per poter ascoltare
Il primo atteggiamento di una religione “pura e senza macchia” è dunque l’ascolto. Ora non ci può essere ascolto se non si impara a tacere e a contenere l’ira: “ognuno sia lento a parlare e lento nell’ira”.
- Imparare a tacere non significa solo non parlare, ma prima ancora saper fare silenzio, cioè imparare a mettere a tacere il proprio punto di vista sulle cose, liberarsi dalla dipendenza delle proprie idee e del proprio punto di vista per cercare di fare proprio quello dell’altro. Solo così si può comprendere, altrimenti si tace con la bocca, ma non con il cuore.
- Per ascoltare non basta fare silenzio ma occorre anche imparare a pacificare il cuore, cioè a vincere i moti dell’ira, della rabbia. L’ira è un sentimento variegato che può nascere da fari fattori: può essere la reazione a un torto subito, può nascere dall’invidia, da una delusione, dalla gelosia, da un’errata percezione di sé, e così via.
L’ira
Giacomo non analizza come e perché nasce l’ira, dice solo che essa è un’esperienza che tutti fanno, e che se vogliamo essere giusti dobbiamo imparare a dominarla, perché nell’ira non si ragiona, si riduce l’orizzonte delle situazioni a quello della propria ferita o del proprio punto di vista, si dimentica la storia, non si considerano le conseguenze delle azioni, si perde di vista l’oggettività.
L’ira ci rivela quanto il nostro spirito deve essere ancora purificato e affinato, perché nell’ira siamo dominati e accecati, rischiando spesso di fare un male che mai faremmo quando siamo padroni di noi. Per Giacomo l’ascolto che rende giusti davanti a Dio e agli uomini non è possibile senza capacità di tacere e senza dominio dell’ira.
L’ira infatti distoglie da Dio. L’ira verso i fratelli smentisce la condizione di figlio ed allontana la giustizia, cioè la salvezza.
Facitori della Parola
21 Perciò liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia, accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.
22 Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; 23 perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: 24 appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. 25 Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.
In questi versetti Giacomo usa diversi termini che pur con sfumature diverse indicano tutti la medesima realtà, cioè la vita religiosa, la vita vissuta alla luce di Dio e sotto la guida di Dio:
- “giustizia di Dio” (1,20),
- “parola piantata in voi” (1,22),
- “Parola” (1,22),
- “legge perfetta, la legge della libertà” (1,25),
- “religione pura e senza macchia” (1,27).
Tutti questi termini sono un diverso modo di esprimere quello che in precedenza Giacomo ha chiamato “la parola di verità”.
La Parola di Dio
Giacomo pensa che la parola di Dio sia in noi come un seme deposto nella nostra anima, che sia il seme della predicazione o quello della coscienza, è comunque la Parola di Dio, Lui che ci parla per donarci la salvezza, ma quel seme per fruttificare chiede di essere custodito e coltivato.
Liberarsi da ogni impurità e da ogni residuo di male significa dissodare il terreno, lavorare ogni giorno a preparare l’anima al frutto divino, cioè lottare per vivere secondo i valori del vangelo. Le impurità e il male sono infatti tutti quei modi di fare, di pensare e di vivere che invece di renderci capaci di giustizia di verità e di libertà e di comunione, invece di renderci simili a Cristo, ci rendono simili al “mondo”, inteso come la vita umana vissuta secondo i valori dell’egoismo, del potere del più forte, dell’affermazione dei prepotenti sugli umili.
La Parola di Dio ha una forza dinamica per mezzo della quale la salvezza investe la persona nella sua totalità: questo è il significato di le anime vostre che ebraicamente indicano tutto l’uomo.
L’esempio del riflesso nello specchio è quello di una immagine effimera di sé. La legge del Vangelo, invece, si fissa nel cuore e rende beata la vita.
Al versetto 21 Giacomo continua precisando l’oggetto dell’ascolto con “la parola seminata in voi”, che può voler dire
- la parola che avete ricevuto, cioè quella della predicazione, l’annuncio del vangelo,
- o la parola di Dio che è dentro di noi, la parola innata con cui Dio ci parla per mezzo della coscienza. Il termine infatti potrebbe anche essere tradotto “innata”, soprattutto se si riconosce in questi versetti una assonanza con concetti della filosofia stoica.
Deporre ogni impurità
È questa parola che ha il potere di portarci alla salvezza, cioè alla partecipazione dei beni divini, a quella perfezione a cui siamo chiamati (1,4). Non basta tacere né dominare l’ira, occorre anche deporre ogni impurità e ogni residuo di male (1,22) se si vuole accogliere e far portar frutto alla parola di Dio in noi.
Probabilmente Giacomo ha in mente la catechesi battesimale che i credenti avevano già ricevuto da catecumeni, cioè la conoscenza della parola di Dio che aiuta a prendere coscienza delle ombre che ci sono nella nostra vita che sono un habitus, un modo di essere e di mostrarsi. Per questo durante il rito battesimali i credenti si spogliavano delle vesti, si immergevano nelle acque e poi si rivestivano di un vestito bianco, simbolo dell’amore divino. Le parole di Giacomo, tuttavia, non sono certo riferite solo all’atto del battesimo, ma a tutta la vita cristiana, continuamente provata, dalla tentazione di assumere i “vestiti” del mondo.
La Parola del vangelo, la parola di verità, la parola seminata in noi, deve essere “praticata” (poietaì: 1,22). L’espressione in greco è pregnante: “siate facitori della parola”: l’ascolto è sempre anche un fare, altrimenti non è autentico.
Giacomo ricorre ad un esempio in cui chi si guarda allo specchio può facilmente dimenticare l’immagine vista troppo fuggevolmente. Ascoltare invece vuol dire anche ricordare e rimanere fedeli alla parola di Dio. Un cristianesimo senza pratica è un’illusione. La pratica della Parola è invece il modo con cui ci ricordiamo di Dio, cercando di vivere nel quotidiano quello che Dio ci fa capire.
I danni della lingua e la vera religione
26 Se qualcuno ritiene di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana.
27 Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
Per Giacomo non ci può essere beatitudine senza verità, giustizia e attenzione agli altri, in special modo ai poveri e agli emarginati.
Negli ultimi due versetti Giacomo infatti esemplifica ancora cosa intende per “religione”, un ascolto che nasce dalla capacità di dominare se stessi domanando la lingua, cioè di metterle la briglia come a un cavallo.
Senza questo dominio di sé e senza questa pratica della parola la nostra religione è vana. Non si tratta solo di essere ipocriti, andando consapevolmente contro quanto si professa a parole; si tratta spesso di un autoingannarsi, credendo di essere religiosi senza esserlo.
Giacomo mette in discussione un modo di concepire la religione riducendola ad un fatto cultuale e devozionale. Culto e devozione sono buoni, ma non possono esaurirsi entro se stessi senza concretizzarsi nella carità, riducendo fede e appartenenza religiosa ad alcune preghiere o ad una adesione solo intellettuale. La vera religione non può prescindere dal prendersi cura dei poveri che non hanno chi li difende, come gli orfani e le vedove.
Una fede incontaminata
Una religiosità autentica chiede anche l’impegno a “custodirsi immacolati da questo mondo”. Il termine immacolato è un termine cultuale, che si usava per indicare la qualità della vittima sacrificale, che doveva essere integra e senza macchia. Così i discepoli della Parola devono cercare di custodirsi lontani dalla mentalità mondana – ricordiamo che Giacomo sta rivolgendosi a persone che sono come una goccia di acqua pura immersa in un oceano di paganesimo. Una realtà non molto distante dalla realtà di oggi…