Almeno per sentito dire conosciamo tutti i sette vizi capitali (superbia, avarizia, ira, invidia, lussuria, gola e accidia) ed è comprensibile il motivo per cui sono considerati tali: perché sono eccessi in cui l’uomo incorre quando dimentica la moderazione nel gestire i propri legittimi istinti.
Dal punto di vista dell’etica cristiana non sono propriamente peccati ma piuttosto sono la radice dei peccati, cioè la tendenza dell’animo che se non controllata dalla persona genera i corrispondenti atti immorali.
Già Aristotele li aveva definiti abiti del male e sono infatti abitudini della persona, inclinazioni della psiche in una direzione negativa e distruttrice della moralità. Una prima analisi cristiana dei vizi capitali (cioè di gravità tale da condurre alla morte) si deve ai primi monaci, fra cui Evagrio Pontico (e Giovanni Cassiano suo discepolo) che classificò i vizi capitali individuandoli in otto “spiriti o pensieri (logismoi) malvagi”: gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia.
La vanagloria successivamente fu accorpata alla superbia, e l’invidia venne aggiunta in un secondo tempo. Ma nella lista di Evagrio compare come vizio a sé anche la tristezza… Poi sparì dall’elenco, accorpata anch’essa, in questo caso all’accidia, che presenta tanti punti in comune. Ma ritengo che il vizio della tristezza meriti ancora una menzione a parte, perché gravemente contrastante con la gioia del Vangelo.
La tristezza, avvelenamento della vita
Non parlo, naturalmente, di quella tristezza che consegue ad eventi traumatici o che viene provocata da situazioni difficili: in questi casi, è naturale e legittimo “sentirsi giù”. Non parlo neppure della depressione, che è una patologia psichica non dipendente dalla volontà della persona. Parlo invece del pessimismo cui certe persone colpevolmente indulgono, avvelenando la vita propria e altrui. È lo stato interiore costante di delusione e scoramento, insoddisfazione ed inerzia nei confronti della vita, di mancanza di speranza e di fiducia, tanto più grave in un cristiano in quanto il Dio cristiano è Dio della grazia e della gioia. È l’umor nero, non momentaneo ma costante, in cui ci si crogiola, e su cui si imposta l’esistenza.
La tristezza può essere una disposizione naturale, una nota genetica del temperamento, contro la quale ci può essere poco da fare. Ma può costituire anche una scelta di base, un orientamento della vita basato sul rapporto conflittuale con gli altri e su una tendenza alla passività per cui le difficoltà non si affrontano direttamente, ma si cerca di fuggirle fingendo che non esistano o aggirandole con sistemi tortuosi e sleali nei confronti delle persone che vengono viste come causa delle difficoltà stesse.
La tristezza manda dritti all’inferno?
Ma come? Uno è triste in questa vita, e oltre tutto deve anche andare all’inferno? Secondo Dante, sì. È un aspetto un po’ nascosto della Divina Commedia, perché, scendendo dal cerchio degli avari e prodighi, l’attenzione del lettore è catturata dal Canto VIII dell’Inferno, molto noto per l’incontro – scontro con l’infuriato Filippo Argenti, un episodio molto vivace in cui tutti si mostrano rabbiosi, non solo il traghettatore Flegias iroso custode del cerchio degli iracondi, e Dante che aveva un fatto personale con il fiorentino spirito bizzarro che in sé medesmo si volvea co’ denti, ma persino il saggio, pacato e nostalgico Virgilio scelto dal sommo poeta a impersonare la guida della ragione: ebbene, anche lui perde le staffe!
«Mentre noi corravam la morta gora,
Dinanzi mi si fece un pien di fango,
E disse: Chi se’ tu che vieni anzi ora?
34 Et io a lui: S’io vegno, io non rimango;
Ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?
Rispose: Vedi, che son un che piango.
37 Et io a lui: Con piangere e con lutto,
Spirito maledetto, ti rimani:
Ch’io ti conosco, ancor sia lordo tutto.
40 Allora stese al legno ambo le mani;
Perchè il Maestro accorto lo sospinse,
Dicendo: Via costà con li altri cani».
Tuttavia, verso la fine del canto precedente (Inferno VII) il buon Virgilio ci aveva anche informato
«che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
120 come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
123 portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”».
Per la famosa legge del contrappasso (in questo caso in analogia e non in opposizione alla colpa), coloro che furono tristi per tutta la vita sono condannati (io direi si autocondannano) ad essere tristi per l’eternità, non veduti da alcuno, sul fondo fangoso della stagnante palude Stigia che in superficie castiga (o meglio, dove si autocastigano) gli iracondi, coloro che mettendo a tacere la ragione vissero in modo eccessivo l’impulso alla preservazione della propria esistenza e dei propri beni, con una focosità incontrollata.
All’estremo opposto, nello stesso cerchio, troviamo gli accidiosi, che colpevolmente coltivarono un atteggiamento di vuoto interiore e di negligente disimpegno nei confronti del bene da operare nella vita.
Ignavia, accidia… e tristezza
I tristi accidiosi non sono propriamente gli ignavi, che al momento della scelta hanno optato per il tirarsene fuori preferendo non avere un’idea propria per stare invece dalla parte meno scomoda, quella del più forte di turno. Mi sembra che il concetto di ignavia presenti in Dante una certa sfumatura politica. È la mediocrità morale relativa all’omissione di scelta nei confronti del bene comune della società. Per questo nell’Antinferno (poiché non li può accogliere né il paradiso né l’inferno, non avendo compiuto essi scelta alcuna) correranno in eterno dietro una insegna qualunque, come il qualunquismo fu la loro opzione di vita.
Nell’accidia invece prevale l’inerzia personale di tutta un’esistenza, come scrive S. Tommaso d’Aquino “il rattristarsi del bene divino”, il rifiuto (colpevole) di gioire del bene di cui Dio costella l’esistenza di tutti. È la meschinità morale nei confronti dell’assunzione di responsabilità nella propria sfera personale: si vive nella tristezza di una esistenza che scivola addosso ma che purtroppo lascia tracce nella vita degli altri, tracce profondamente negative.
Accidia e tristezza sono i due versanti della scelta di coloro che si lasciano andare in preda allo scoramento e che, per il senso di inutilità che nutrono come alibi della propria scelta, negano l’assunzione di responsabilità (“Io non posso fare nulla”… “Ormai non resta niente da fare”… “Ormai è finita”…) e si mostrano cupi, chiusi ad ogni spiraglio di fiducia (“Stiamo attenti!”… “Siamo circondati da nemici!”… “Tutti ci ingannano”…). Con la tristezza si escludono dalla gioia più profonda, dal godimento dei doni di Dio, ne l’aere dolce che dal sol s’allegra…
Il bicchiere mezzo vuoto
Mi sono dilungata su questo tipo di atteggiamento perché è gravemente invalidante nei confronti della comunità, contribuendo a soffocarla in un velo di tristezza e pietrificandola nell’inattività. Si può distruggere un mondo anche col solo far nulla. Una professione di fede formale non basta a controbilanciare questo vizio che intossica la persona che se ne riveste e la comunità alla quale appartiene.
È come quando in un bicchiere il liquido arriva alla metà: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? C’è chi non riesce a vedere manco il bicchiere. C’è anche chi riesce ad affogarci dentro… Eppure è solo un mezzo bicchiere. E stiamo qui a disquisire se è mezzo pieno o mezzo vuoto? Ma beviamocelo, no?