In che senso la sofferenza può divenire positiva? Nel capitolo VII del suo saggio Il problema della sofferenza, Lewis discute sei proposizioni che non sono tra loro collegate ma che è necessario enucleare per una visione completa del problema del dolore umano. La prima proposizione che analizza riguarda proprio il problema della positività della sofferenza. Se è positiva, se sono beati i poveri e i perseguitati, non dovrebbe essere cercata?
C’è un paradosso, scrive infatti Lewis, nella visione cristiana della tribolazione. I poveri sono beati, ma la povertà va eliminata dalla giustizia sociale e dalla carità. Beati sono i perseguitati, ma la persecuzione si può fuggire e Gesù stesso pregò perché tale prova gli fosse risparmiata. Se si tratta di un bene, perché è lecito o persino doveroso evitarlo? L’apparente contraddizione, dice lo scrittore, è causata alla radice da una visione positiva della sofferenza: la sofferenza non è positiva in sé. La sua positività consiste per il credente nell’accettazione della sottomissione alla volontà di Dio; per gli altri, nella compassione e nella carità che il sofferente suscita.
Il bene e il male
Lewis distingue nell’universo caduto in cui viviamo:
– il bene puro che viene da Dio
– il male puro che viene dalla ribellione delle creature libere
– lo sfruttamento di quel male da parte di Dio in vista del suo piano di redenzione
– il bene “complesso” che viene all’uomo dall’accettazione della sofferenza e dal pentimento rispetto al suo peccato.
Tale sfruttamento del male prodotto dagli uomini, di cui Dio si serve per un bene maggiore, non giustifica coloro che commettono il male. Potremmo qui ricordare la felix culpa Adae menzionata nel Preconio pasquale, quae tantum meruit habere Redentorem: O felice colpa di Adamo, che meritò di avere un così grande Redentore! Da un male, che resta male, Dio ricava un bene più grande. E Lewis commenta:
Servire Dio come Giuda o come Giovanni
«Le malvagità devono essere commesse, ma guai a coloro che le commettono; è vero che i peccati fanno abbondare la grazia, ma non dobbiamo farcene una scusa per continuare a peccare.
La crocifissione è stato l’avvenimento più bello, come pure il più brutto, della storia, ma il ruolo che vi svolse Giuda resta sempre negativo. Possiamo applicare questo ragionamento innanzi tutto al problema della sofferenza degli altri. l’uomo misericordioso cerca il bene del suo prossimo e così compie “la volontà di Dio”, cooperando consapevolmente con il “bene puro”. L’uomo crudele opprime il suo prossimo e così facendo commette il male puro. Ma nel commettere tale male è usato da Dio, senza che lui lo sappia e lo approvi, per produrre il bene complesso, così che il primo dei nostri due uomini serve Dio cme figlio e il secondo come strumento. Infatti è certo che noi contribuiamo al piano di Dio indipendentemente da come ci comportiamo, ma c’è una bella differenza per noi tra il servirlo come Giuda o come Giovanni».
La rinuncia cristiana non è apatia
«La sofferenza esercita la sua funzione in un mondo in cui gli esseri umani cercano, come è normale e con i mezzi loro consentiti, di evitare quello che per la loro natura è un male e di ottenere invece quello che è un bene… Perché la nostra volontà possa sottomettersi a Dio, dobbiamo innanzitutto avere una volontà e tale volontà deve avere degli scopi. La rinuncia cristiana non è un’”Apatia” di tipo stoico, ma vuol dire essere pronti a preferire Dio ad altri fini inferiori che possono però essere altrettanto legittimi.
Così l’Uomo Perfetto portò al Getsemani una volontà, e una volontà forte, di sfuggire alla sofferenza e alla morte se tale fuga fosse stata compatibile con la volontà del Padre, unita a una perfetta disponibilità ad obbedire se non lo fosse stata. Alcuni santi raccomandano una “rinuncia totale” fin dall’inizio del nostro discepolato, ma io credo che questo possa significare soltanto una disponibilità totale a tutte quelle rinunce particolari che possono esserci richieste, perché non sarebbe possibile vivere di attimo in attimo non desiderando altro che la sottomissione a Dio come tale. Quale sarebbe la sostanza di tale sottomissione? Sembrerebbe contraddittorio dire “quello che voglio è sottomettere quello che voglio alla volontà di Dio”, perché il secondo “quello” non ha contenuto…
Nella parabola più esauriente che il Signore ha dato del Giudizio Universale, Egli sembrava ridurre ogni virtù al fare attivamente del bene; e anche se sarebbe un errore isolare tale immagine dal resto del Vangelo, essa è sufficiente a chiarire al di là di ogni dubbio i principi basilare dell’etica sociale del cristianesimo». L’articolo precedente QUI.