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La sofferenza è per una maggiore felicità. Lo sostiene C.S. Lewis nel suo saggio «Il problema della sofferenza». Aveva già riconosciuto al dolore la possibile funzione positiva di risvegliare la coscienza. Le persone non si arrenderebbero da una situazione di colpa se tutto andasse bene, è il dolore che la rende riconoscibile e la smaschera; «ogni uomo sa che qualcosa non va quando viene ferito». Adesso, Lewis analizza un secondo aspetto di questo processo. Il dolore infrange l’illusione dell’autonomia, cioè che possiamo avere da soli quanto ci serve per noi stessi.
Quando Dio è il «paracadute» della vita
Il dolore, afferma Lewis, serve a rimettere Dio al centro della vita e quindi ad acquisire la vera felicità.
«Se il primo attacco del dolore distrugge l’illusione che tutto vada bene, il secondo distrugge l’illusione che quello che abbiamo, buono o cattivo che sia, sia veramente nostro o sufficiente per noi. È noto a tutti quanto sia difficile rivolgere i nostri pensieri a Dio quando tutto ci va bene…
La frase “abbiamo tutto quello che vogliamo” è terribile se quel “tutto” non comprende Dio. Per noi Dio è solo un’interruzione. Come dice Sant’Agostino, “Dio vuole darci qualcosa, ma non può perché abbiamo le mani piene; non c’è posto per metterci niente”. O, come ha detto un mio amico, “per noi Dio è quello che il paracadute per l’aviatore: c’è in caso di emergenza, ma lui spera di non doverlo usare mai”».
La sofferenza per una maggiore felicità
«Ora Dio, che ci ha fatti, sa cosa siamo, e sa che la nostra felicità risiede in Lui. Eppure noi non la cercheremo mai in Lui finché ci lascerà un qualsiasi altro luogo in cui possiamo plausibilmente cercarla. Finché quella che chiamiamo “la nostra vita” sarà piacevole, non la cederemo mai a Lui. Che cosa può dunque fare Dio nel nostro interesse se non renderci la vita meno piacevole e eliminare le plausibili fonti della nostra falsa felicità? È proprio a questo punto, quando la provvidenza di Dio sembra in un primo momento più crudele, che l’umiltà divina, l’abbassamento dell’Altissimo, merita più lode. Rimaniamo perplessi quando vediamo abbattersi delle sventure su persone rispettabili, inoffensive, degne…
Dio, che ha creato queste persone meritevoli, può avere veramente ragione di pensare che la loro modesta prosperità e la felicità dei loro figli non siano sufficienti per renderli beati… E per questo Egli infligge su di loro delle sofferenze, avvisandoli in anticipo di una insufficienza che un giorno dovranno scoprire. La vita loro e delle loro famiglie si frappone fra queste persone e il riconoscimento del loro bisogno; Egli rende loro quella vita meno dolce».
La Divina Umiltà
Dio ci accoglie anche se ci rivolgiamo a lui per motivi meschini.
«Questa la chiamo “Divina Umiltà” perché è meschino ammainare la nostra bandiera davanti a Dio quando la nave affonda, è meschino rivolgersi a Lui come all’ultima speranza di salvezza, offrirgli “ciò che è nostro” quando ormai non vale più la pena di tenerlo. Se Dio fosse orgoglioso, certo non ci accetterebbe a queste condizioni; ma non è orgoglioso, si abbassa per conquistare, ci vuole avere anche se ci rivolgiamo a Lui solo perché non abbiamo trovato “niente di meglio”…
L’illusione della creatura di essere autosufficiente deve crollare nel suo stesso interesse e Dio, servendosi delle afflizioni o della paura delle afflizioni sulla terra, e mediante la semplice paura del fuoco eterno, la fa crollare, “incurante della diminuzione della Sua gloria”. Chi vorrebbe che il Dio della Scrittura fosse più puramente etico non sa quello che chiede. Se Dio fosse kantiano, e non ci accogliesse se non quando andassimo a Lui partendo dai motivi più puri e migliori, chi potrebbe essere salvato? E questa illusione di autosufficienza può essere più forte in alcune persone molto oneste, gentili e moderate, e su tali persone deve dunque abbattersi la sventura».
Il primo aspetto pedagogico della sofferenza sottolineato da Lewis sembrava ricordare almeno in parte gli argomenti dei tre amici di Giobbe (sofferenza motivata dal peccato e dal bisogno di conversione). Questo secondo aspetto richiama la teoria di Elihu, il quarto amico, quello giovane. Si tratta ancora di soluzioni parziali, che in certi casi possono attagliarsi a pennello, ma spesso la realtà deborda e sfugge ad analisi di questo tipo.
Il fatto è che qui Lewis parla ancora in teoria, con un’ottica assai diversa da quella che la sofferenza più atroce lo porterà ad adottare nel più maturo «Diario di un dolore» – solo venti anni dopo se ci limitiamo ad un calcolo cronologico, ma una intera vita dopo, se si considera l’esperienza che lo scrittore dovrà vivere quando sarà lacerato da un vero amore e da un vero dolore.