
L’attuale sinagoga di Livorno sorge, come quella che l’ha preceduta, in pieno centro cittadino, vicino al duomo. È una grande sinagoga monumentale del Novecento; l’unica, anzi, ad essere stata costruita in Italia dopo la seconda guerra mondiale che causò la distruzione di quella antica. Fu progettata dall’architetto Angelo Di Castro e completata nel 1962 sul luogo della sinagoga seicentesca.
La sinagoga antica

La sinagoga costruita a Livorno nel Seicento, mi dicevano i miei genitori che l’avevano vista, era la più bella d’Europa; era anche una delle più grandi, seconda per dimensioni solo a quella di Amsterdam.
Era nata nel 1603, su progetto degli architetti Cogorano e Pieroni responsabili delle fabbriche militari e civili del Granducato, per i bisogni della cospicua comunità ebraica che si era stabilita a Livorno per effetto delle Leggi Livornine 1591 e 1593).
«Il Serenissimo Gran Duca… a tutti Voi Mercanti di qualsivoglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnuoli, Portughesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani, dicendo ad ognuno di essi salute… per il suo desiderio di accrescere l’animo a forestieri di venire a frequentare lor traffichi, merchantie nella sua diletta Città di Pisa e Porto e scalo di Livorno con habitarvi, sperandone habbia a resultare utile a tutta Italia, nostri sudditi e massime a poveri…».
L’effetto delle Leggi Livornine

In queste Leggi, che si possono considerare il primo editto di tolleranza religiosa al mondo in epoca moderna, il granduca Ferdinando I, interessato a favorire lo stabilirsi di mercanti di ogni nazione nella nuova città, concesse a qualunque nazione, in particolare agli ebrei, il privilegio di abitare a Livorno dove non nacquero mai ghetti, a differenza di tutto il resto dell’Europa. Gli ebrei potevano comprare beni stabili, non limitarsi al solo diritto d’uso degli immobili, pertanto avevano la possibilità di radicarsi nel tessuto cittadino.
Fu così che a Livorno affluirono greci, francesi, olandesi-alemanni, armeni, inglesi e tanti altri, ognuno con la propria chiesa e libertà di culto, ma soprattutto ebrei. La cosiddetta «Nazione Ebrea» divenne ben presto la comunità più numerosa e più importante di Livorno e, a differenza delle altre Nazioni, era riconosciuta a pieno titolo come suddita toscana, pur mantenendo una propria giurisdizione con proprie leggi e propri magistrati, i massari, che amministravano il diritto nella comunità secondo la legge ebraica.
Già nel corso del XVII secolo, con la crescita della presenza ebraica in città, si rende necessario un ampliamento della sinagoga, cui seguiranno successive trasformazioni.

La nuova sinagoga di Livorno

All’interno della nuova sinagoga di Livorno è visibile come l’architetto Di Castro volesse richiamare nella forma la Tenda del deserto che custodiva l’Arca dell’Alleanza. L’effetto è dato dalla struttura portante, realizzata con nervature in calcestruzzo armato e pannelli in cui si aprono finestre ottagonali ed esagonali. L’abside è costituita da un corpo prismatico in cui piccolissime aperture triangolari creano un suggestivo effetto di luci.
L’aròn haqqodeš (אָרוֹן הַקֹּדֶשׁ), che custodisce i rotoli della Torah, è del 1708, uno splendido esempio di ebanisteria barocca proveniente dalla sinagoga di Pesaro.
La comunità ebraica
La comunità ebraica di Livorno si costituì prevalentemente con ebrei di origine portoghese / spagnola (sefarditi) che rappresentarono una componente importante della vita cittadina. Si calcola che verso il 1689 vi fossero a Livorno circa 5.000 israeliti, che erano saliti a circa 9.000 intorno al 1740 e nel 1837 erano oltre 4.100 nel solo quartiere della sinagoga.
La comunità ebraica di Livorno usava varie lingue:
- l’ebraico antico come lingua sacra,
- il portoghese come lingua ufficiale della comunità sino all’epoca napoleonica;
- lo spagnolo sefardita come lingua letteraria;
- l’italiano come lingua dei rapporti con la società toscana,
- il bagitto, un linguaggio misto giudeo-livornese, con componenti toscane, spagnole, portoghesi ed ebraiche, e addirittura tracce di greco ed yiddish, con una produzione anche letteraria che si è prolungata fino a metà del Novecento. Viene dal bagitto il verbo, così usato in livornese, sciagattare (shachat = macellare ritualmente), come pure il nome della roschetta, tipica ciambella salata secca.
Il clima di tolleranza e la prosperità della comunità ebraica favorirono anche una fioritura di studi ebraici, con lo sviluppo di istituti d’istruzione ed accademie talmudiche, ognuna delle quali provvista di una ricca biblioteca. Livorno aveva un posto di tutto rispetto negli studi talmudici.
Tra i rabbini recenti di chiara fama dobbiamo ricordare Elia Benamozegh, Alfredo Sabato Toaff padre del rabbino capo Elio Toaff, e Giuseppe Laras, che è stato figura chiave del dialogo ebraico-cristiano insieme al cardinale Carlo Maria Martini.
Col declino economico della città, anche la comunità ebraica si ridusse numericamente, arrivando a contare circa 700 persone. Oggi è una delle 21 comunità ebraiche italiane riunite nell’UCEI (Unione Comunità Ebraiche Italiane).
Una curiosità: la presenza mussulmana a Livorno
A Livorno i saraceni, catturati durante le battaglie navali, erano detenuti nel Bagno dei forzati. All’interno del Bagno avevano una stanza adibita a moschea con un loro ministro detto “Coggia” (dal turco hoca, signore). Nel 1689 erano 845, ma arrivarono anche a 2.000; avevano diritto a un vestito nuovo all’anno, “tre pani al giorno con sue minestre”, e, in caso di gravi malattie, di essere curati all’ospedale del Bagno nell’ala loro dedicata. Avevano una serie di botteghe fuori dal Bagno e potevano ad esempio vendere l’acqua o svolgere l’attività di facchini. Successivamente affluirono a Livorno numerosi mercanti turchi.
Una curiosità nella curiosità: l’espressione Bagno penale, usata per indicare uno stabilimento di pena, deriva proprio dal Bagno di Livorno, così detto perché era sotto il livello del mare.
Tenuto conto della condizione di detenzione per gli schiavi turchi catturati sulle galee, quelli di Livorno rappresentavano un’anomalia: perché era quello l’unico luogo italiano in cui, invece di attendere incatenati al remo e a cielo aperto, gli schiavi riposavano in una struttura che si proteggeva dalle intemperie e potevano addirittura svolgere attività economiche.
A quel tempo c’era, in oriente, una città provvista di moschee e sinagoghe, di chiese di cattolici di rito latino e orientale, di cristiani ortodossi di lingua greca e araba, di armeni, un crogiuolo di nazionalità, lingue, culture e religioni: Gerusalemme. Nel Sei-Settecento, lo stesso si poteva dire di un’altra città, un porto di mare toscano: Livorno.