Siamo arrivati alla terza sezione narrativa del Vangelo secondo Matteo, che si estende per ben quattro capitoli, dal 14 al 17. Inizia con la morte del Battista e prosegue con gli episodi della moltiplicazione dei pani, del cammino di Gesù sulle acque, della fede della cananea, della professione di Pietro, della Trasfigurazione ed altri. È costituita da due parti, la prima delle quali è la Sezione dei pani:
- quella chiamata «La sezione dei pani» (14,1-16,12) perché è questo il tema ricorrente; il termine artos / pane vi compare ben 15 volte;
- quella dedicata al messianismo sofferente (16,13-17,27).
Siamo dunque alla metà del Vangelo di Matteo costituito da 28 capitoli, nel suo momento centrale. Gesù vi si manifesta come Pane spezzato, come Figlio dell’uomo consegnato. L’ottica dei discepoli verrà ridimensionata, dopo i miracoli strepitosi della moltiplicazione dei pani e del cammino sulle acque e dopo la gloria della Trasfigurazione, nel senso di un cammino umile e paziente verso una Gerusalemme che uccide i profeti. Avranno finalmente compreso i discepoli? No, e neppure noi.
La morte del Battista (14,1-12)
Il brano si apre con una dolorosa tragedia: la voce che si era alzata nel deserto per additare le vie del Signore viene troncata. L’occasione della narrazione viene da un equivoco sulla identità di Gesù sorto nella mente morbosa di Erode Antipa, l’identificazione erronea con il Battista redivivo.
Il narratore introduce pertanto un flashback sulla già avvenuta morte del Battista, che dimostra come la sorte del profeta sia la persecuzione e il martirio; infatti, Matteo ne parla subito dopo l’aver registrato il rifiuto ricevuto da Gesù a Nazareth: Nemo propheta in patria, come dovevasi dimostrare.
Il racconto di Matteo, al solito, è più conciso e sbrigativo rispetto all’abbondanza di particolari di Marco (Mc 6,14 ss.). Con ironia, però, il tetrarca si fa profeta senza volerlo e senza saperlo: che Gesù cioè sarebbe risorto dai morti, come lui erroneamente crede sia stato del Battista. In tal modo, la morte del Battista diviene preludio della imminente morte di Gesù e sentore della sua resurrezione.
Anche in questo Giovanni Battista ricalca la storia di Elia: Erodiade è la sua Gezabele che lo vuole mandare a morte, ed Erode Antipa è un perfetto re Achab dominato dalla moglie. È interessante che il contesto della vicenda di Elia sia un clima di resurrezione (il figlio della vedova di Sarepta, come poi, nella saga del suo discepolo Eliseo, il figlio della Sunnamita), di fuoco (che scende dal cielo sul Carmelo), di rivelazione (di Dio sull’Oreb), di moltiplicazione del pane (2Re 4,42-44).
La prima moltiplicazione dei pani
La moltiplicazione dei pani, miracolo sulla natura, non è semplicemente un dar da mangiare agli affamati, ma ha un valore profetico: è annuncio e prefigurazione del banchetto pasquale eucaristico. Il gesto di distribuire il pane è davidico (lo compie Davide in 2Sam 6,19), quindi regale e messianico.
Il luogo è deserto, nel senso che è fuori dei centri abitati (tradizionalmente situato vicino a Tabga). L’erba su cui siedono i presenti esclude che si tratti di un deserto vero e proprio, ma la parola, éremos, richiama la fame di Israele e il dono della manna. Il pane, però, questa volta non scenderà dal cielo: saranno le mani dei discepoli a distribuirlo.
Il fremito delle viscere
Gesù agisce perché la folla lo muove a compassione. Il verbo, splanchnizomai, meglio si tradurrebbe «sentì fremere le viscere» (tà splanchna). Questo stesso verbo, alla fine del capitolo 9, già aveva introdotto la missione dei Dodici (cap. 10):
9 35 Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. 36 Vedendo le folle ne sentì compassione [= sentì fremere le viscere], perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. 37 Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! 38 Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!».
Di nuovo, adesso, questo verbo introduce l’invito ai discepoli: «Date loro voi da mangiare». Dopo l’invio e la responsabilità per la Parola (discorso missionario), vengono l’invio e la responsabilità per il Pane.
Commosso fin nel profondo delle sue viscere, Gesù prima guarisce i malati. Ma c’è un altro bisogno, una fame di cui persino i discepoli si rendono conto. Sono i discepoli a fornire quanto hanno: 5 pani e 2 pesci che sfameranno 5.000 uomini, più le donne e i bambini, e ne avanzerà.
Simbolismo numerico
Cinque è il numero del Pentateuco, la Torah di Mosè, numero giuridico ebraico per eccellenza. 12 saranno le ceste piene di avanzi, e 12 è il numero dei figli di Giacobbe, delle tribù di Israele. È l’Eucaristia di Israele.
Il contesto è pasquale. Il passo parallelo di Mc 6,39 ci ricorda l’erba verde e quindi la primavera, mentre Gv 6,4 menziona esplicitamente la Pasqua. La citazione degli avanzi richiama chiaramente l’afiqoman, la parte di azzima che si preleva per serbarla al dopo cena, quando tutti ormai sono sazi ed hanno ancora a disposizione da mangiare; ma richiama anche i pezzi di pane eucaristico che la comunità celebrante faceva avanzare perché i diaconi li portassero agli infermi o a coloro che erano stati impediti dal partecipare alla frazione del pane. Anche la benedizione, la berakhah, richiama chiaramente la cena pasquale, con una formula del tipo «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re dell’universo, che fai uscire il pane dalla terra».
È un’assemblea ordinata: Gesù dà ai discepoli, i discepoli alle folle. Sono quindi i discepoli che sfamano la gente con le povere cose che avevano a disposizione, ma attingendo a Gesù. Non c’è altro modo.
Il cammino sulle acque (Mt 14,22-36)
Dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù non si trattiene ad essere acclamato dalle folle, ma si ritira in solitudine a pregare sul monte. La barca dei discepoli, invece, è in balìa delle onde, a molti stadi (uno stadio equivale a 185 m.) dalla riva. L’episodio si colloca anch’esso sulla linea del cammino di esodo di Israele: il quadro si completa ora con il cammino sulle acque, nel contesto del tema dell’attraversamento del mare, confermato dalla menzione della quarta veglia della notte, in parallelo alla veglia del mattino in cui il Signore interviene sul mare per salvare Israele (Es 14,24).
Una prerogativa divina
Èun’azione pasquale quindi; di più: è un’azione divina. Solo Dio, nell’Antico Testamento, sovrasta e doma il mare. Ecco il senso di questo strano gesto funambolico di un Gesù che cammina sul mare, riportato da Matteo con Marco e Giovanni ma non da Luca che lo ritiene di difficile comprensione per i suoi lettori provenienti dal paganesimo. I discepoli hanno paura del mare, ma hanno paura anche di Gesù.
Camminare sulle acque è una prerogativa divina; e infatti Gesù proclama «Io Sono!» (14,27), usando il nome divino Jhwh che ci rimanda di nuovo alla rivelazione mosaica del Nome (Es 3,14).
La realtà ecclesiale
Ma in Matteo è presente anche un evidente richiamo alla realtà ecclesiale di cui la barca dei discepoli è prefigurazione. Molte ombre ancora la offuscano. La fede di Pietro appare generosa, ma quel che l’apostolo vuole è ottenere da Gesù una prova, con l’impulsività che sempre lo caratterizza, e con la debolezza da cui senza volerlo riconoscere è affetto. La sua fede deve crescere, e molto!
Il fallimento della fede di Pietro, però, che c’è ma è piccola, permette a Gesù di manifestare tutta la sua potenza divina, il che provoca la fede dei discepoli: «Veramente sei il figlio di Dio!» (14,33). Peccato che non comprendano ancora, in profondità, quello che in qualche modo intuiscono.
Dalla purità rituale alla purità morale
La folla va a Gesù e viene guarita (14,35-36). Scribi e farisei, invece, vogliono risposte da Gesù. Perché i suoi discepoli non si purificano le mani prima di mangiare? Non osservano la purità rituale?
La purità rituale
L’obbligo di lavarsi le mani prima di toccare il pane vigeva solo per i sacerdoti, ma avevano esteso a tutti i fedeli questa prerogativa i farisei, che pretendevano di vivere nelle proprie case, nelle proprie famiglie nello stesso stato di purità rituale dei sacerdoti al tempio. Una spiritualità laicale bellissima e molto forte, tra l’altro, che però faceva correre il rischio di ingabbiare tutta l’esistenza in una rete soffocante di precetti minuziosissimi.
Gesù non rigetta le tradizioni farisaiche in quanto tali, se promanano da ricerca sincera di Dio. Quello che rigetta è l’ipocrisia di chi segue alla lettera i precetti più minuti, filtrando, per modo di dire, persino i moscerini, mentre trasgredisce quelli più grandi fino a ingoiare, per proseguire nella metafora, un cammello, quasi a voler ingannare Dio.
Ad esempio, un inganno è il consacrare a Dio ciò che il dovere filiale vorrebbe fosse messo a disposizione per sostentare i genitori anziani. È il qorban (Mc 7,11), denaro che non si poteva più donare ma si poteva trafficare per condurre i propri affari.
La vera purità
Questa domanda diviene l’occasione per istruire la folla sulla vera purità. Non sono le cose esterne che rendono l’uomo veramente impuro, il cibo che assume, ma il suo interno, i pensieri di male che albergano nel suo cuore. Chi non comprende la sostanza della legge e si ferma alla lettera, è come un cieco che pretende di guidare gli altri.
La cananea (Matteo 15,21-31)
Nell’antichità biblica i cananei, abitanti della terra di Canaan, erano di etnia fenicia. Gesù, lasciando Genezareth dove è avvenuto lo scontro con i farisei, si ritira appunto verso una terra pagana, la Fenicia. In tale contesto avviene l’incontro con la donna cananea.
È la donna che va incontro a Gesù. Il momento dei pagani, per Gesù che si dice mandato alle pecore perdute della casa d’Israele (15,24), non è ancora venuto. È la donna che affretta i tempi, come la Madre di Gesù alle nozze di Cana nel IV Vangelo. Come nell’episodio di Cana – curiose queste analogie! – Gesù sembra chiuso in un atteggiamento di rifiuto, prima col silenzio, poi con la negazione. È un momento di suspense: cosa accadrà? I “programmi”, sia pure divini, avranno la meglio sulla carità?
Torna in scena il pane
In realtà, quella che Gesù sta interpretando, a beneficio degli astanti, per la loro crescita nella fede, è una parte, quasi una “sceneggiata”. Di fronte all’apparente insensibilità di Gesù si acutizza la sensibilità dei discepoli, anche se il motivo reale sembra essere il fastidio che la donna sta provocando con le sue grida di aiuto. Ma qui ritorna, ed è questo il momento centrale della sezione, l’immagine del pane.
Gesù sembra rispondere negativamente: non si dà ai cani il pane dei figli. “Cane” era il normale epiteto che il popolo eletto riferiva al pagano in quanto incirconciso e impuro, come il cane, appunto, che nel mondo biblico, con l’eccezione del libro di Tobia, non è un animale positivo e nemmeno domestico, è piuttosto qualcosa come uno sciacallo.
Perciò, anche se attutita dal diminutivo “cagnolini”, nel senso non di cuccioli ma di cani domestici, la frase suona molto offensiva alle orecchie pagane. Luca, infatti, che scrive per i pagano – cristiani, preferisce omettere l’intero episodio.
La donna però si dimostra capace di cogliere l’ironia e la rilancia arditamente e con fede: bastano le briciole, che si danno anche ai cani. Che l’abbondanza vada anche a loro, ai pagani, è già alluso nello spreco di seme della parabola del seminatore, e nelle 12 ceste di avanzi di pane della prima moltiplicazione. Le briciole, infatti, sono quello che avanza; ma al grande banchetto del Pane e della Parola – ce n’è così tanto, il Padrone non bada a spese! – tutto sovrabbonda, e questa donna che si contenta di briciole avrà il pane dei figli.
L’episodio così prelude alla seconda moltiplicazione dei pani, quella per i pagani. Altro che briciole!
La seconda moltiplicazione dei pani (Mt 15,32-16,4).
Folle intere portano a Gesù gli infermi, e tutti li guarisce. È ancora la compassione, il fremito delle viscere, che muove Gesù a rispondere alla fame della folla che da tre giorni (il numero non è casuale) lo segue, una folla stremata dall’attesa. I tre giorni hanno un particolare significato: senza che la folla lo sappia, è l’attesa della Pasqua di resurrezione. Le azioni, poi, sono quelle del primo episodio, ma i numeri cambiano significativamente. Questa seconda moltiplicazione dei pani rappresenta la Pasqua dei pagani.
Simbolismo numerico: i pagani
I pani a disposizione adesso sono 7, gli uomini sono 4.000, 7 le ceste di pezzi avanzati. 4 è numero cosmico, rappresenta l’universo e quindi i pagani che popolano i quattro angoli della terra; come pure, qui, il numero 7, perché 70 sono per i rabbini i popoli del mondo e 70 le lingue da loro parlate (più precisamente 72, ottenuto moltiplicando 12, il numero della totalità del popolo, per 6, la sua metà).
Questa interpretazione è confermata dall’uso del verbo eucharistéo / rendere grazie, che è in greco l’equivalente dell’ebraico barak / benedire, in greco euloghéo. È l’eucaristia dei greci, delle genti.
Come nel racconto giovanneo della moltiplicazione dei pani (Gv 6,30 s.), anche qui le guide spirituali del popolo, sadducei, gli uomini del tempio, e farisei, i laici impegnati, chiedono un segno dal cielo. Non bastano tutti gli eventi prodigiosi accaduti sulla terra sotto gli occhi di tutti, vogliono di più: il segno tradizionale di autenticazione messianica era, popolarmente, la replica del miracolo della manna, il pane che scende dal cielo. Ma come, chi è tanto accorto da saper riconoscere i segni meteorologici, non sa poi riconoscere i segni dei tempi della storia? Soltanto il segno di Giona (cfr. 12,38 ss.) suggellerà la missione messianica di Gesù, ma anche questo non basterà a chi non ha la fede. Come scrisse Franz Werfel, “per chi ha fede nessuna prova è necessaria, per chi non ha fede nessuna prova è sufficiente”.
Il lievito dei farisei (16,5-12)
La sezione dei pani si chiude tornando sul tema del pane. È incredibile che i discepoli, dopo la duplice moltiplicazione dei pani, abbiano ancora paura di rimanere senza pane! La loro fede è veramente piccola.
Il lievito è un fermento che rende soffice e voluminosa la pasta, ma è anche una muffa che la corrompe. La dottrina dei farisei e dei sadducei, che di comune avevano ben poco, è la medesima quando si tratta di concentrarsi sulla purità rituale anziché sulla legge della carità. È questo l’atteggiamento che corrompe la vita del credente e la vita della Chiesa.