Il problema della salvezza dei non credenti

Divina Commedia, Il Limbo. Di William Blake – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1220418

Aver parlato recentemente del battesimo ci porta all’inevitabile domanda: c’è una salvezza per i non battezzati o non credenti? Questo perché circola ancora, in modo inappropriato, il detto attribuito a San Cipriano «Extra Ecclesiam nulla salus», «Fuori della Chiesa non c’è salvezza». Dobbiamo, però, vederlo nel suo contesto, e chiederci inoltre: che cosa ha realmente sostenuto la Chiesa nei secoli a proposito della salvezza dei non credenti? E questa volta, invece che dalla Bibbia, parto da Dante. In fondo, è colpa sua se l’idea del Limbo ci è tanto familiare.

Extra Ecclesiam…

Mater Ecclesia. Salterio, Monte Cassino, 1087 circa, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38628782

Fuori della Chiesa non c’è salvezza? Questa frase, nata del contesto del dibattito ecclesiale sulle prime eresie cristiane, voleva significare che gli “eretici” (cristiani) avrebbero dovuto rientrare nella Chiesa per avere la salvezza. Non vuole invece dire che tutti coloro che non fanno parte della Chiesa, ovvero  i pagani, sono automaticamente esclusi dalla salvezza eterna. In tal senso l’espressione non è mai stata adottata dal magistero, che invece ha, in qualche modo, sempre ammesso la possibilità di numerose vie straordinarie della salvazione.

La convinzione di base è che la salvezza degli uomini passi attraverso il sacrificio di Cristo che si continua fino alla fine dei tempi nella parola e nei sacramenti della Chiesa. Solo nella Chiesa viene data la salvezza completa. Ma dal punto di vista individuale si è sempre ammesso che esista una possibilità di perdizione degli appartenenti alla Chiesa, così come la possibilità di salvezza fuori di essa.

L’immaginario dantesco

Dante e la sua opera. Di Domenico di Michelino. Duomo di Firenze – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=970608

Perché voglio partire da Dante? Perché la nostra concezione dell’Aldilà è inevitabilmente segnata dall’immaginario dantesco, da quella gigantesca cattedrale poetica che è la Divina Commedia. È un’opera sublime che giunge a vette inarrivabili di poesia, ma che ha anche il pregio di coinvolgere tutti i nostri sensi – con percezioni visive, uditive, olfattive, tattili – trasportandoci nei fumi acri dell’Inferno, nei delicati acquerelli del Purgatorio, nelle armonie celestiali del Paradiso.

Naturalmente, Dante non partiva da zero, ma assumeva e sintetizzava in sé, elaborandoli, tutti i dati della cultura medievale, religiosa e profana. Dante è un acutissimo teologo che ha saputo trasfondere in poesia la teologia e conferire alla poesia una dignità teologica, traguardo mai raggiunto in tal forma da nessun altro.

Luoghi che non sono luoghi

Non è colpa sua se, dietro il suo immaginario poetico, tutti noi abbiamo continuato a rappresentarci l’Aldilà come un insieme di luoghi: un luogo di dannazione, l’Inferno; un luogo di purificazione, il Purgatorio; un luogo di beatitudine, il Paradiso. Soltanto che questi «luoghi» non sono luoghi, anzi sono «non luoghi»: perché la realtà ultraterrena è, finché dura la storia dell’uomo, una realtà spirituale, e le anime, essendo spirituali, non necessitano di uno spazio ove stare. Non sono loro nell’Inferno, ma l’Inferno è in loro; non sono loro nel Paradiso, ma il Paradiso è in loro. Non si sta parlando di luoghi, ma di stati dell’anima, di condizioni di dannazione o di beatitudine. È solo per comodità didattica che Dante li rappresenta fisicamente.

Quindi noi, dietro la possente fantasia dantesca, immaginiamo una voragine infernale per i dannati, battezzati o no, che hanno perseguito il male fino all’ultimo istante della vita terrena; un paradiso celeste per i beati, che hanno cercato il bene; un monte dalle sette balze, il purgatorio, per i pentiti, che almeno all’ultimissimo momento hanno compreso il male fatto ed hanno chiesto e accolto il perdono di Dio. Ma, un attimo: i giusti che hanno cercato di fare il bene ma non erano battezzati… dove li mettiamo? Ecco la risposta che Dante si è dato, almeno quando ha cominciato a scrivere la Prima Cantica: non li possiamo mettere né all’Inferno né in Paradiso; li mettiamo nel Limbo.

Il Limbo, opinione teologica

Dante incontra gli spiriti magni nel Limbo. Di Priamo della Quercia (1403-1483) – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1551487

Il Limbo sembra risolvere tutti i problemi: peccato che sia solo un’opinione teologica. Questo lo chiarì molto bene nel 1984 il cardinal Ratzinger, nel libro Rapporto sulla fede:

«il limbo non è mai stato una verità definita di fede. Personalmente lascerei cadere quella che è sempre stata soltanto un’ipotesi teologica».

Lo ribadisce nel 2001 Raniero Cantalamessa:

«Dimentichiamo l’idea del limbo, come il mondo dell’irrealizzato per sempre, senza gioia e senza pena, dove finirebbero i bambini non battezzati, insieme con i giusti morti prima di Cristo. Questa dottrina, che pure è stata comune per secoli, e che Dante ha accolto nella Divina Commedia, non è stata mai ufficializzata e definita dalla Chiesa. Era una ipotesi teologica provvisoria, in attesa di una soluzione più soddisfacente e, come tale, superabile grazie a una migliore comprensione della parola di Dio.

Il bambino non nato e non battezzato si salva e va a unirsi subito alla schiera dei beati in paradiso. La sua sorte non è diversa da quella dei Santi Innocenti che festeggiamo subito dopo Natale. Il motivo di ciò è che Dio è amore e “vuole che tutti siano salvi”, e Cristo è morto anche per loro!» (Gettate le reti. Riflessioni sui vangeli, Piemme, Casale Monferrato, 2001, anno C, pp. 68-69).

Lo sostiene nel 2007 anche la Commissione teologica internazionale (organismo della Congregazione per la dottrina della fede) in un documento ufficiale approvato da Benedetto XVI: il tradizionale concetto di limbo riflette una «visione eccessivamente restrittiva della salvezza… La teoria del limbo […] rimane quindi un’ipotesi teologica possibile».

La logica del Limbo

La Resurrezione: Cristo scende agli inferi per liberare i giusti. Icona russa XVI secolo – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15465712

L’affermazione di principio del cristianesimo è molto chiara: Cristo è l’unico mediatore fra Dio e gli uomini, e chi si salva si salva per mezzo di lui. Dunque, coloro che non hanno potuto conoscerlo perché lontani, nello spazio o nel tempo, dall’annuncio del Vangelo, eppure hanno condotto una vita giusta, saranno condannati per una colpa non loro?

Una soluzione che parve logica e appropriata fu quella di collocarli in un limbo privo di pena ma anche privo di speranza, della speranza, cioè, di giungere alla visione di Dio.

San Tommaso lo definì uno stato di felicità naturale, senza la possibilità della felicità soprannaturale che viene dalla visione beatifica. L’alta fantasia di Dante lo collocò in un luogo geografico sotterraneo costituito dal primo girone infernale, senza sofferenze, ma anche senza gioia, dove dimorano le anime dei giusti non battezzati, che – come dice Dante – senza speme vivono in disio.

San Tommaso e la ragione naturale

Quella dell’esistenza del limbo però è stata solo una dottrina diffusa e non un dogma: una semplice ipotesi teologica. San Tommaso d’Aquino già scriveva:

«Dal fatto che tutti gli uomini sono tenuti a credere esplicitamente alcune verità per salvarsi, non c’è inconveniente alcuno che qualcuno viva nelle selve o tra gli animali bruti. Poiché appartiene alla Divina Provvidenza provvedere a ciascuno le cose necessarie per la salvezza, a meno che uno non lo impedisca da parte sua. Perciò, se uno educato secondo la ragione naturale si comporta in maniera da praticare il bene e fuggire il male, si deve tenere per cosa certissima (certissime tenendum est) che Dio gli rivelerà per interna ispirazione le cose che deve credere necessariamente o gli invierà qualche predicatore della fede come fece con S. Pietro e Cornelio» (De Veritate, 14, 11, ad 1).

Secondo il Doctor Angelicus, Cristo è l’unica via della salvezza, perciò è indispensabile che aliqualiter (in qualche modo) ogni uomo venga a contatto con lui mediante la fede, però questo avviene diversimode (in modi diversi). Nell’Antico Testamento, avviene credendo de Christo venturo; nel Nuovo Testamento, mediante la fede esplicita; per i pagani, in qualche misterioso modo. Così Giobbe poté affermare «Io so che il mio redentore vive»; così, secondo S. Tommaso, la pagana Sibilla predisse alcune cose su Cristo; ed anche senza rivelazioni, alcuni si salvarono con «una fede implicita nella divina provvidenza, credendo che Dio sarebbe stato il redentore degli uomini nei modi che a lui sarebbero piaciuti» (STh II-II,2,7). Senza Cristo nessuna salvezza; ma S. Tommaso riesce a conciliare la volontà salvifica universale di Dio con la necessità dell’incontro con Cristo e con la non conoscenza di lui da parte di molti.

Il ripensamento di Dante

Grandes Heures de Jean de Berry – Cristo nel Limbo, fol. 84 (1409). Pseudo Jacquemart de Hesdin. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=36268918

Dunque già nel Duecento, in pieno regime di Christianitas, il tomismo si apriva all’idea della salvezza per i non cristiani, anche se alla Chiesa resta il dovere di fare di tutto perché la fede in Cristo divenga esplicita; e nella Rosa dei beati dantesca troveremo coloro che in buona fede, senza saperlo, aliqualiter, hanno accolto il Cristo, insieme a coloro che per grazia l’hanno conosciuto.

Quando Dante intraprende il suo viaggio letterario, Cristo nella discesa agli Inferi ha già liberato i giusti del popolo d’Israele che, morti prima della sua venuta, hanno però creduto e sperato nel Messia venturo. Il poeta colloca invece nel Limbo le anime di quanti non furono cristiani, ma vissero da uomini giusti e perciò non meritarono l’Inferno. Un posto particolare tra questi è riservato ai grandi personaggi della storia vissuti prima di Cristo, soprattutto greci e romani (come Omero, Aristotele e Cesare), ma anche musulmani come il Saladino, Avicenna e Averroè.

Di questi grandi fa parte anche Virgilio, guida di Dante nel suo viaggio per i primi due regni perché rappresenta tutto ciò che la virtù umana, la Ragione, può raggiungere senza il dono della Grazia.

Ma se San Tommaso ritiene che esista una sorta di ispirazione interna, che conduca alla salvezza chi si sforza di evitare il male e praticare il bene secondo la sola ragione naturale, Dante non è da meno. Dopo aver perfezionato la sua idea di limbo ed avervi confinato i giusti morti senza battesimo, man mano che va avanti con la sua Commedia della vita umana sembra che si penta del suo stesso rigore.

La salvezza dei pagani

Giovanni di Paolo, Paradiso. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=36378920

Così troviamo custode del Purgatorio Catone Uticense, che neppure avrebbe dovuto essere nel limbo ma nell’inferno vero e proprio, nella selva dei suicidi. Poiché egli si uccise per non dover sottostare alla tirannia di Cesare, Dante lo fa assurgere a simbolo di libertà.

Così pure, troviamo in Paradiso, tra gli spiriti giusti, due pagani, Traiano imperatore e il troiano Rifeo. Nel caso di Traiano, Dante vuol credere alla leggenda medievale secondo cui il papa Gregorio Magno, colpito dalle virtù dell’Imperatore, avrebbe ottenuto da Dio la sua resurrezione per il tempo necessario a convertirlo, battezzarlo e aggregarlo alle schiere dei beati. Dante lo colloca perciò  nel Cielo di Giove, fra i sei spiriti giusti che formano l’occhio dell’Aquila.

Ma l’aspetto più sorprendente è la presenza fra questi spiriti beati del pagano Rifeo, personaggio omerico, vissuto nella finzione letteraria molti secoli prima di Cristo. Però Rifeo, dice Dante, indirizzò tutto il suo amore nella giustizia a tal punto che Dio lo illuminò con la sua Grazia e gli fece conoscere la Redenzione. Non sopportando più il paganesimo, Rifeo fu battezzato, mille anni prima di Cristo, non dall’acqua ma dalla Fede, Speranza e Carità.

Così Dante si può ormai lanciare nell’invettiva

«A questo regno  

non salì mai chi non credette ’n Cristo,

né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.

Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,

che saranno in giudicio assai men prope

a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian dannerà l’Etiòpe,

quando si partiranno i due collegi,

l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe» (Par. XIX, 103-111).

Virgilio: la nostalgia della salvezza

Peccato che questo ripensamento non ci sia stato prima: ormai l’amato Virgilio è stato relegato nel Limbo, e su questo Dante non può tornare indietro. Ma può dar ragione della sua scelta, spiegando per bocca di Stazio come è possibile che molti si siano salvati aderendo al cristianesimo dopo aver letto la IV Egloga del grande poeta romano, mentre Virgilio stesso non può accedere alla Visione beatifica:

«Facesti come quei che va di notte, 
che porta il lume dietro e sé non giova, 
ma dopo sé fa le persone dotte…» (Purgatorio XXII, 67-69).

Una lucerna che rischiara la strada alle persone che la seguono, ma non può dissipare le tenebre che stanno davanti al portatore di luce: questa è la mesta figura di Virgilio, uomo giusto e virtuoso nato troppo presto per conoscere il Cristo. Gli è toccato simboleggiare il valore e il limite dell’uomo non salvato dalla Grazia; per questo non gli è concesso di andare oltre. Ma forse, in cuor suo, Dante l’avrà redento e spedito nella Rosa dei beati senza nemmeno farlo passare dal Purgatorio.

(Continua)