
Luca, tra le altre cose, si può definire “l’evangelista della preghiera”. Più di tutti gli altri, infatti, sottolinea l’intima comunione tra Gesù e il Padre notando continuamente il suo raccogliersi in preghiera.
Il Padre nostro in Luca
Ed è in un rapporto di comunione che, come Gesù, si può dire: “Padre” (11,1-4). Mentre in Matteo è Gesù ad insegnare il Padre nostro nel discorso della montagna, in un contesto di istruzione sulla preghiera, in Luca la preghiera dei discepoli nasce dal colloquio di Gesù con il Padre, come dono suo e non azione di conquista. Gesù si fa maestro di preghiera perché vive profondamente l’atteggiamento filiale. Con Gesù, dunque, giungiamo dalla preghiera ascetica del discepolo (del Battista, dei farisei…) all’appello del figlio, tanto simile all’invocazione di Gesù stesso: “Abbà, Padre”.
Più breve rispetto alla forma matteana, la preghiera di Luca presenta solo cinque richieste, due per la glorificazione di Dio e l’avvento del suo Regno, tre per il pane del corpo e il pane dell’anima, il perdono. La tentazione da cui si prega di essere liberati è quella di perdere la fiducia nel Padre, di non credere nel Dio di misericordia, per cui alla lettera preghiamo proprio il Padre di “non indurci in tentazione” nel senso di “non permettere che entriamo in tentazione”.
La preghiera come atto di fiducia
Ecco dunque il tema della fiducia: se anche un amico importuno viene esaudito perché cessi di infastidire, se qualunque padre, buono o cattivo che sia, sicuramente meno buono di Dio, dà cose buone ai figli (11,5-13), come pensare che il Padre non faccia dono dello Spirito d’amore ai figli suoi?
La preghiera, ci dice così Luca, ha due caratteristiche: l’insistenza e la fiducia. Tuttavia, Dio non è obbligato ad esaudire alla lettera le nostre richieste, ma vuole sempre il meglio per noi, e ci dà il meglio donando lo Spirito: la preghiera esaudita alla lettera si potrebbe ritorcere contro l’orante, che spesso non sa veramente quello che dice e quello che chiede.