
Il voto di Jefte è unico nel racconto biblico a causa della sua sconcertante specificità. Fare voto di offrire un sacrificio come ringraziamento era una convenzione. In questo caso, tuttavia, qual è l’oggetto del voto? Chi o cosa avrebbe potuto uscire incontro a Jefte per salutarlo? Come hanno sottolineato i rabbini, se fosse stato un animale, avrebbe potuto essere impuro e, quindi, inaccettabile come offerta.
Nella formulazione stessa del voto è insita una certa ambiguità. Qual è la portata del voto di Jefte? Che cosa ha promesso, in realtà?
Il voto si compone di due parti: in primo luogo, che chiunque fosse uscito incontro a Jefte sarebbe appartenuto al Signore; inoltre, che Iefte lo avrebbe offerto in olocausto.
La richiesta della figlia di Jefte
La figlia di Jefte è quella che esce per incontrarlo e lui deve adempiere al suo voto su di lei. Lei accetta il suo destino ma fa una richiesta inaspettata a suo padre prima che il voto venga adempiuto.
«Disse al padre: “Fammi questo: lasciami andare per due mesi, poi andrò a scendere sui monti e piangerò la mia verginità, io e le mie compagne”» (Gdc 11,37).
Iefte acconsente e lei e le sue compagne vanno a piangere la sua verginità sui monti.
La figlia di Jefte torna due mesi dopo dal padre e “egli ha adempiuto al suo voto”. Vuol dire che l’ha sacrificata?
La portata del voto di Jefte
C’è chi sostiene che il voto di Iefte si riferisse non al sacrificio cruento della figlia bensì alla consacrazione della sua vita al Signore. Così pretendevano Ibn Ezra e e Levi Ben Gershon (1288–1344) nell’intento di salvare la reputazione di questo valoroso giudice, e alcuni moderni; e due elementi della storia inducono a pensare che non l’abbia fatto.
Il rito annuale del pianto della figlia di Iefte
I versetti seguenti notano che “questo era uno statuto in Israele” (11,39), che ogni anno le figlie di Israele andavano per quattro giorni a fare questo lamento (11,40). Anche qui ci sono ambiguità e tutte le traduzioni sono speculative.
La maggior parte degli studiosi presuppone che si riferisca a una sorta di lamento rituale per il suo destino, traducendo la preposizione “lamed” come “circa” la figlia di Jefte. Tuttavia, potrebbe significare “a” la figlia di Jefte, cioè che le stanno parlando e si stanno commiserando con lei, ancora viva. Se questo è vero, allora “adempiendo il suo voto” non significa “sacrificando sua figlia”.
Si può quindi ipotizzare che le donne israelite facessero un pellegrinaggio da lei ogni anno, e ciò spiega anche perché questa pratica istituzionalizzata non compaia in nessun’altra parte della Bibbia, perché sarebbe stato effettuato solo durante la sua vita.
L’estrema enfasi sulla verginità
Subito dopo la dichiarazione circa l’adempimento del voto da parte di Iefte, ci viene detto che sua figlia “non conosceva uomo” (11,39). Se è morta, suggerisce qualche critico, allora questa informazione non è rilevante. Questa percezione è rafforzata dall’estrema enfasi posta sulla verginità e non sulla morte della fanciulla.
Questo potrebbe suggerire che in realtà la giovane non sia stata uccisa e che sia invece rimasta vergine per il resto della sua vita.
Qual è allora la portata del voto di Jefte?
Per vari motivi non mi sembra che questa opinione sia da condividere. Quello di stracciarsi le vesti è un inequivocabile segno di lutto, un lutto anticipato per una morte inevitabile. Ciò conferma il fatto che si parli proprio di un sacrificio umano e non di una sorta di vita monastica. Inoltre, Isacco e la figlia di Iefte sono designati entrambi come un olah, un olocausto da offrire a Dio (Gn 22,2; Gdc 11,31).
La scena, conforme ai costumi pagani dell’epoca cui anche Israele era continuamente tentato di adeguarsi, rimane tragica. Non dimentichiamo che siamo in un’età buia di passioni e di corruzione. Ricordiamo che nei sacrifici umani in terra di Canaan non venivano immolati anonimi schiavi. Venivano immolati i figli, specialmente i primogeniti (primizie del vigore del padre) e gli ultimogeniti (i più teneri e amati tra i figli).
Il verbo shuv (“ritornare”, “ritirare”), compare continuamente in questo capitolo (ad es. vv. 8; 9; 31; 39): tutti nel racconto “ritornano” o “si ritirano”; eccetto, tragicamente, la parola data da Iefte a Dio, che non può essere ritrattata. A questo proposito Rashi, basandosi sul Midrash, attribuisce a Jefte e ai Saggi dell’epoca la colpa di non aver tentato di annullare il voto a causa del loro orgoglio.
L’odioso e assurdo sacrificio è consumato. Di questa delicata e generosa fanciulla non rimane neppure il nome. Segno di veridicità dell’episodio, che se fosse stato inventato non avrebbe mancato di assegnarle un nome fittizio e di tramandarlo ai posteri.
Una sofferenza voluta… ma non offerta
Protagonista del libro dei Giudici è un’umanità che cade nel turbine delle più sciagurate passioni. E non siamo ancora arrivati al culmine, ci sarà ben di peggio.
Certamente, i racconti dei Giudici conservano più un valore simbolico che storico, volendo ammonire che non si debba scendere a compromessi con l’idolatria. La vicenda di Iefte in questo senso è esemplare. Non si può mescolare la fiducia in Dio con la pretesa di uno scambio alla pari; pena la perdita di ciò che è più caro, e in definitiva di se stesso, perché Iefte perdendo la figlia perde anche la sua speranza di una discendenza.