Procediamo adesso alla lettura del primo capitolo: vediamo l’importantissimo insegnamento riguardante la perseveranza nella prova.
Intestazione
1 Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono nella diaspora, salute.
La lettera di Giacomo è indirizzata “alle dodici tribù che sono nella diaspora”. L’espressione “dodici tribù” è un riferimento al popolo di Israele. Chiamando i cristiani “le dodici tribù”, Giacomo vuole probabilmente significare che essi sono l’Israele che ha riconosciuto in Gesù il messia atteso. Giacomo aggiunge “nella diaspora” o nella “dispersione”: i cristiani che vivono fuori da Israele oppure i cristiani che sono stati dispersi a causa delle persecuzioni iniziate con il martirio di Stefano (At 8,4). Non è, comunque, da intendersi in senso etnico.
Tentazione, sapienza e perseveranza (Gc 1,1-15)
Come affrontare l’esperienza della prova, da dove vengono le tentazioni, come vivere le difficoltà della vita? Queste sono le domande fondamentali cui risponde la lettera di Giacomo, che mediante l’esortazione sapienziale cerca di guidare i cristiani nel cammino verso la perfezione (vedremo poi che cosa significa in realtà “essere perfetti”).
2 Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, 3 sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. 4 E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla.
La tentazione di per sé non procura gioia: è solo nel Signore che può emergere questo aspetto. C’è un tempo della prova, infatti, in cui è facile dubitare della bontà e vicinanza di Dio (1,12-16) e dell’esistenza di un suo progetto per la nostra vita (1,16-18).
Se la vocazione dei cristiani è la perfezione della vita, la vita quotidiana rivela tuttavia che essi ancora non sono perfetti, soprattutto nel momento delle prove.
Categoria biblica della prova
Non banalizziamo il concetto di tentazione riducendolo alla tentazione al peccato. Biblicamente, la tentazione è prima di tutto prova, come difficoltà che fa crescere e consolida nella fede. Non è Dio che ha bisogno di prove, siamo noi ad averne bisogno.
Il primo paradigma di prova è quello collettivo, di Israele nel deserto che per 40 anni ha dovuto confermarsi nella fede. Poi, con la riflessione sapienziale, il concetto si sposta sul piano individuale: pensiamo a Giobbe e a Tobia. Il concetto di tentazione come spinta al male è successivo, e si lega a quello di forza ostile demoniaca. Dio mette alla prova, ma non induce in tentazione. Così bisognerebbe tradurre il Padre Nostro: Non ci esporre alla prova (peirasmós).
Nel caso di Giacomo, si sta parlando di prove che vengono da Dio per consolidare la vita cristiana. Così la fede diviene più genuina e più solida, capace di perseveranza cioè di mantenere l’impegno alla stesso livello iniziale.
La perseveranza
La Perseveranza, hypomoné, non è in senso cristiano pazienza come sopportazione passiva. È una virtù attiva, robusta, che impegna nel condurre la propria vita in adesione alla fede professata. È in questo senso che il Sia fatta la tua volontà non significa arrendersi al volere superiore di Dio (tanto con Lui non c’è altro da fare) ma impegnarsi perché la sua volontà si compia su questa nostra terra. In questo stesso senso Amen non significa Così sia, con un sospiro di vaga speranza, ma Così è! Una robusta professione di fede.
La perseveranza poi è indispensabile per crescere, per realizzare il cammino della nostra vita pensato da Dio. Nessun cammino può realizzarsi senza perseveranza, perché senza di essa nessun progetto umano è possibile, né l’amore sponsale, né alcun servizio reso ai fratelli, né alcuna opera di carità o di giustizia. È la perseveranza che “compie l’opera” di Dio in noi, perché la perseveranza è la pazienza, cioè la capacità di sopportare le difficoltà che nasce dalla consapevolezza di essere chiamati a realizzare una chiamata.
Vivere le prove
Le prove non sono un bene in sé, e Giacomo non afferma che per perfezionare la fede occorrono le prove; ma dal momento che le prove ci sono nella vita, quel che ci dice è che possiamo viverle con fede.
La prova permette di distinguere nella nostra fede ciò che è essenziale da ciò che non lo è, pregiudizi e paure, blocchi psicologici e bisogni di sicurezze umane. La prova è l’occasione in cui la fede può purificarsi dalle false immagini con cui veneriamo Dio e da tutte le motivazioni umane per cui crediamo.
Non sono necessarie le prove per “purificare” la fede, ma è vero che nelle prove è più facile mettere a nudo quello che abbiamo nel cuore, le vere motivazioni per cui facciamo le cose, le speranze più profonde, i valori importanti che danno senso alla vita. Molte volte nelle “prove” si pensa di perdere la fede, ma spesso quella fede che si perde nelle prove non era altro che un’immagine di Dio che ci eravamo costruiti o che avevamo ricevuto in dono dalla tradizione e dall’educazione. In questo senso la fede che ha superato la prova (Gc 1,2) rende “pazienti”, più forti, più fermi e perseveranti.
Il Grande Iconoclasta
Mi viene in mente un piccolo scritto di C.S. Lewis, Diario di un dolore, che il grande scrittore cristiano compose con i suoi pensieri seguenti alla perdita della moglie. Questo libretto, che ingannevolmente potrebbe far pensare ad una perdita della fede, in realtà è una sorta di discesa agli inferi e di risalita a ritrovare la luce: non per niente termina con un verso del Paradiso di Dante.
Tante espressioni possono addirittura sembrare blasfeme, ma non sono altro che il grido di Giobbe, che non perde mai la fede in Dio ma vorrebbe capire che cosa è questo Dio che non corrisponde più ai suoi schemi. L’immagine più efficace, cui l’autore perviene nel suo travaglio, è quella del Grande Iconoclasta che per misericordia butta giù ogni volta i castelli di carte che ci costruiamo, le false immagini cui ci attacchiamo… La prova, biblicamente, non è un test da cui Dio può vedere qualcosa che sa già meglio di noi, ma è qualcosa di analogo alla prova atletica, una difficoltà che fa crescere l’atleta.
La sapienza
5 Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data. 6 La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento. 7 Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: 8 è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni.
Per essere in grado di interpretare le prove occorre la sapienza, il dono di Dio che permette di attuare realisticamente la vita cristiana.
Quello che Giacomo condanna non è la fatica interiore, la difficoltà del credere, ma la mancanza di decisione interiore che non permette di passare all’azione dopo aver effettuato il discernimento. È lo sdoppiamento tra i motivi dell’agire e il passare all’azione, il fidarsi di Dio con riserva.
La perseveranza infatti non basta, occorre anche la “sapienza”, cioè la capacità di fare le scelte giuste, di capire come comportarsi concretamente nella vita; di cercare sinceramente di guardare il mondo con gli occhi di Dio e di agire come Lui avrebbe agito se fosse stato al nostro posto.
Questa sapienza va chiesta, cioè bisogna riconoscere di non sapere, o meglio dobbiamo sempre domandarci se quello che noi pensiamo essere giusto sia veramente giusto agli occhi della sapienza di Dio, perché il nostro modo di giudicare il mondo spesso è parziale. Se chiediamo con questa umiltà Dio illumina, fa capire. Invece spesso chiediamo a Dio ma senza fede, cioè senza affidarsi a lui, perché “esitiamo” (1,5).
Un cuore unito
Nel testo originale il verbo esitare è diakrino, che significa distinguere, giudicare, disputare, ma anche dubitare. Si tratta dunque dell’esitare che nasce dalla volontà di difendere la propria visione delle cose, invece di fare nostra la visione delle cose di Dio, cioè la sua Sapienza. Per questo chi esita, chi dubita è come un’onda che va a viene, uno che non prende mai veramente posizione. Costui è un “indeciso, instabile in tutte le sue vie” (1,8): letteralmente, “un uomo dall’animo doppio e senza stabilità”.
Quel prefisso dìa indica una divisione, come in diaballo, dividere, l’azione del diavolo (colui che divide). Si può apportare divisione nella comunità, ma si può anche essere divisi in sé stessi. L’opposto di questo verbo è symballo, mettere insieme, l’azione che fa Maria nel vangelo di Luca quando conserva che cose che vede e le medita in cuor suo: le unifica, le fa oggetto di meditazione profonda, senza divisioni in se stessa, unita solo alla volontà di Dio anche in ciò che al momento non capisce.
Chi esita perché ha un proprio giudizio sulle cose, è in sé diviso, è anche incapace di vivere secondo la parola di Dio, così come chi si gloria delle proprie ricchezze, cioè cerca l’affermazione di sé attraverso il potere che dà la ricchezza, attraverso l’importanza che gli viene dai beni, e non dalla fede che tutto è dono di Dio.
Beati i poveri
9 Il fratello di umili condizioni sia fiero di essere innalzato, 10 il ricco, invece, di essere abbassato, perché come fiore d’erba passerà. 11 Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco nelle sue imprese appassirà.
La sapienza che permette nella perseveranza di diventare perfetti, cioè giusti e capaci di amare come Dio, non deve scontrarsi solo con i propri pregiudizi e modi sbagliati di vedere il mondo (l’esitare di 1,7-8), né solo con l’inganno che può venire dalla ricchezza, ma anche con il mondo dei desideri che portiamo dentro di noi.
La sapienza che viene da Dio opera subito uno sconvolgimento nei giudizi sociali. Il povero, l’anaw, è veramente grande perché conta solo su Dio. Il ricco invece è povero, perché la ricchezza umana è transitoria.
Beato chi resiste alla prova
12 Beato l’uomo che resiste alla tentazione perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano. 13 Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. 14 Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; 15 poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte.
Giacomo afferma in maniera categorica che la tentazione non viene da Dio (1,13), se con tentazione intendiamo una prova che induce al male, perché Dio è buono e desidera il bene per tutti noi.
Le tentazioni vengono da dentro di noi, dalle “passioni” che ci “attraggono” e ci “seducono” (1,14); passioni che abbiamo dentro, i desideri incontrollati, gli istinti, le pulsioni innate, questo mondo torbido che c’è in ogni persona e che a volte rimane persino sconosciuto. Ci sono “passioni” producono “morte”, cioè fanno morire il bene, la giustizia, la verità, la comunione e la misericordia. Questi desideri che producono il male vanno distinti da quelli che fanno il bene, per crescere ogni giorno nella capacità di amare Dio e il prossimo.