Siamo arrivati al culmine della storia di Geremia, narrata con tutta probabilità del suo segretario Baruc: è la“passione di Geremia”, che si consuma in dieci anni, fra il 597 e il 587 a.C., gli anni della deportazione in Babilonia.
Come abbiamo visto, Geremia parla pochissimo di un Messia venturo, ma in qualche modo lo ha prefigurato vivamente nelle dolorose vicende della sua esistenza, in misteriosa analogia con la Passione di Cristo e con quella di tutti i giusti della terra. Percosse, interrogatori, prigione… la cisterna e il fango in cui i giusti dell’Antico Testamento lamentano di stare sprofondando…
Il fango, nella poesia dell’Antico Testamento, è, come la polvere, il pozzo, la palude, le acque limacciose che giungono alla gola, una delle metafore che rimandano al mondo della morte, lo Sheol. Quella di Geremia, come poi quella di Gesù, è una passione che è già una discesa agli Inferi, in quel mondo inferiore, il più lontano dalla vita, in cui la tristezza più profonda è rappresentata – nella prospettiva più arcaica – dal non avere più comunione con Dio, né, quindi, gioia. Sarà solo la Passione di Cristo, con la sua Resurrezione, a ridare luce e speranza a questa condizione esistenziale… Ma Geremia non vedrà ancora una resurrezione dalla sua angoscia.
La passione di Geremia: gli inizi
La storia della passione di Geremia inizia in un momento di allentamento dell’assedio dei babilonesi a Gerusalemme perché adesso sono impegnati sul fronte egiziano (37,11). Il nuovo re Sedecia non ascolta le parole del profeta in quanto gli sono sgradite, ma gli chiede di pregare per lui e per il suo popolo. Questa richiesta è contraddittoria: il re vorrebbe che Dio facesse la sua volontà, ma non vuole fare, lui, la volontà di Dio. È questa la contrapposizione fra atteggiamento magico e preghiera: il primo pretende, mediante gesti e formule, che il Divino faccia la volontà dell’uomo; la seconda si affida alla volontà del Signore, pur presentando le proprie suppliche.