

La Grande Danza del Cielo: è questa l’immagine con cui si conclude il saggio di C.S. Lewis Il problema della sofferenza. Dagli abissi del dolore alla gioia del Cielo, questo è il percorso su cui lo scrittore ci conduce in un discorso di fede. Sappiamo che venti anni dopo, quando la sofferenza gli entrerà nella carne con la perdita della moglie, il grande scrittore dovrà elaborare tutto il percorso ricominciando da capo, ed in modo molto più doloroso e meno teorico. Tuttavia, quel saggio più maturo, il Diario di un dolore, terminerà anch’esso con una suggestione di Paradiso, un verso della Terza Cantica di Dante.
Il seme muore per vivere
Un libro sulla sofferenza che non menzioni il Cielo, secondo Lewis, «tralascia quasi tutto un aspetto del problema» e non sarebbe cristiano: la Scrittura e la tradizione spiegano le gioie celesti alla luce delle sofferenze terrene. Una trattazione che non lo faccia non può dirsi cristiana. Perciò lo scrittore, nell’ultimo capitolo de Il problema della sofferenza, affronta anche questo argomento – dal suo punto di vista cristiano, ovviamente; quindi, dal punto di vista della fede.
Oggi, dice Lewis, siamo molto reticenti al riguardo perché abbiamo paura di essere presi in giro per questa speranza di paradiso; quasi volessimo sfuggire alla responsabilità di dover costruire un mondo felice sulla terra con la scusa di doverlo cercare altrove. Inoltre, possiamo temere che seguire una promessa di ricompensa ci faccia apparire dei mercenari. In realtà, in ognuno di noi c’è un desiderio, un’attrazione segreta, diversa per ciascuno, per una felicità fatta su misura per ogni uomo; un posto, diverso per ciascuno, di cui ciascuno ha un desiderio personale. Ma questo si raggiunge solo seguendo la legge suprema:
«Il seme muore per vivere, il pane dev’essere gettato sulle acque, chi perde la sua anima la salverà, ma la vita del seme, il ritrovamento del pane, la salvezza dell’anima sono altrettanto reali del sacrificio iniziale… “A chi vince io darò… una pietruzza bianca, con scritto sopra un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceva” (Ap 2,17). Che cosa ci può essere per l’uomo di più suo di questo nuovo nome che perfino nell’eternità rimane un segreto tra Dio e lui? E come dobbiamo interpretare questa segretezza? Senz’altro che ognuno dei credenti conoscerà e loderà per sempre un particolare aspetto della bellezza divina meglio di qualsiasi altra creatura»….
La sinfonia celeste: eternamente diversi
«E questa differenza, invece di danneggiare l’amore reciproco di tutte le creature beate e la comunione dei santi, li inonda di significato. Se tutti sperimentassero Dio nello stesso modo e gli tributassero un’adorazione autentica, l’inno della Chiesa trionfante non sarebbe una sinfonia; sarebbe come un’orchestra in cui tutti gli strumenti suonassero la stessa nota.
Aristotele ci ha detto che la città è l’unione di elementi diversi (Politica, II, 2,4) e san Paolo che il corpo è l’unità di membri diversi (1Cor 12,12.30). Il Cielo è dunque una città e un Corpo, perché i beati rimangono eternamente diversi: essi formano una società per il fatto che ognuno ha qualcosa di diverso da dire a tutti gli altri – informazioni sempre nuove su quel “Mio Dio” che ognuno trova in Colui che tutti lodano come “Nostro Dio”… Un’unione, infatti, può esistere solo fra cose distinte».
Lewis mostra come ciò esista anche nella Trinità: «Anche all’interno del Santo stesso, non basta che la Parola sia Dio; deve anche essere con Dio. Il Padre genera eternamente il Figlio e ne deriva lo Spirito Santo: la deità introduce la distinzione in se stessa così che l’unione di amori reciproci possa trascendere i semplici concetti di unità aritmetica e di identità con se stessi».
Questo concetto tornerà, nell’ottica rovesciata di Berlicche, ad essere così espresso:
«Tutta la filosofia dell’inferno consiste nel riconoscimento dell’assioma che una cosa non è un’altra, e specialmente che un io non è un altro io. Il mio bene è mio bene, e il tuo è tuo. Ciò che uno guadagna un altro perde. Perfino un oggetto inanimato è ciò che è, perché esclude dallo spazio che occupa tutti gli altri oggetti; se si espande, lo fa spingendo da una parte gli altri oggetti, oppure assorbendoli. E l’io fa la stessa cosa. Con le bestie l’assorbimento prende forma del cibarsi; per noi significa assorbire la volontà e la libertà da un io più debole in uno più forte. “Essere” significa “essere in competizione”.
Orbene, la filosofia del Nemico non è né più né meno di un continuo tentativo di evasione da questa verità evidentissima. Egli ha di mira una contraddizione. Le cose debbono essere molte, e tuttavia, in qualche modo, anche uno. Il bene di uno deve essere il bene di un altro. Egli chiama codesta impossibilità amore e questa stessa panacea può scoprirsi in tutto ciò che Egli fa, e perfino in tutto ciò che Egli è – o pretende di essere. Così, Egli non s’accontenta neppure in Se Stesso, di essere una pura unità matematica; e pretende di essere tre così come uno, affinché codesto assurdo intorno all’Amore trovi un punto d’appoggio sulla sua stessa natura» (Lettera XVIII).
Essere veramente se stessi: la legge dell’abdicazione
Secondo Lewis, l’anima è una forma che Dio riempie continuamente. L’unione con Dio è per lui un continuo darsi, un costante svuotamento, una resa di sé da parte dell’anima in modo da diventare più veramente se stessa.
«Dal livello più eccelso al più infimo, l’”io” esiste perché possa abdicare; e, con questa abdicazione, esso diventa ancora più veramente “io” perché abdica ancora di più, e così via per sempre. Questa non è una legge celeste a cui possiamo sfuggire rimanendo legati alla terra, né una legge terrena a cui possiamo sfuggire essendo salvati. Ciò che si trova al di fuori del sistema dell’abbandono di sé non è terra né natura né “vita normale” ma semplicemente e solamente inferno… Quella fiera reclusione di sé che è assoluta realtà, la forma negativa che le tenebre esterne assumono».
La Grande Danza del Cielo
Lewis conclude questo suo saggio sulla sofferenza, paradossalmente, con l’immagine di una danza in cui ognuno dona se stesso in un gioco festoso diretto dal grande Maestro, un gioco santo in cui Egli genera e si dona eternamente nel sacrificio della Parola. Ma la prospettiva è cosmica:
«Quale è il rapporto della nostra terra con tutte le stelle, così è senza dubbio il rapporto di noi uomini e di tutto ciò che ci concerne con tutta la creazione; quale è il rapporto di tutte le stelle con lo spazio stesso, così è quello di tutte le creature, di tutti i troni, dei poteri e dei più potenti degli dèi creati, con l’abisso dell’Essere che esiste solo per Sé, che è per noi Padre e Redentore e Consolatore in noi, ma di cui nessun uomo o angelo può dire o concepire quello che è in e per Se Stesso, o quale è l’opera che Egli svolge dal principio alla fine».
Nello sviluppo di tutto il libro, Lewis, conducendoci dall’abisso della sofferenza alla Grande Danza del Cielo, ha parlato da cristiano, spiegando però la ragionevolezza delle affermazioni della fede. Se c’è un difetto in questo notevole testo, è forse quello di razionalizzare troppo, di voler spiegare tutto senza concedere margini d’ombra. Il dolore come megafono di Dio che grida ad un mondo sordo è l’immagine che fra tutte si staglia e rimane. Che ne sarà, però, venti anni dopo, quando la sofferenza dovuta alla perdita della moglie lo strazierà in un modo che un ventennio prima non avrebbe potuto immaginare? Non che Lewis abbia perso la fede, mai, a differenza di quanto può far supporre il bellissimo film «Viaggio in Inghilterra» in cui lo scrittore è interpretato da un magnifico Anthony Hopkins. L’analisi del suo dolore, lì, sarà veramente spietata. Un dolore da cui Dio sembra assente. Dirà:
«E intanto, dov’è Dio? Di tutti i sintomi, questo è uno dei più inquietanti. Quando sei felice, così felice che non avverti il bisogno di Lui, così felice che sei tentato di sentire le Sue richieste come un’interruzione, se ti riprendi e ti volgi a Lui per ringraziarlo e lodarlo, vieni accolto (questo almeno è ciò che si prova) a braccia aperte.
Ma vai da Lui quando il tuo bisogno è disperato, quando ogni altro aiuto è vano, e che cosa trovi? Una porta sbattuta in faccia, e il rumore di un doppio chiavistello all’interno. Poi, il silenzio. Tanto vale andarsene. Più aspetti, più il silenzio ingigantisce. Non ci sono luci alle finestre. Potrebbe essere una casa vuota. È mai stata abitata? Un tempo, lo sembrava. Ed era una impressione altrettanto forte di quella di adesso. Che cosa significa? Perché il Suo imperio è così presente nella prosperità, e il Suo soccorso così totalmente assente nella tribolazione?»
Sembrerà il rovesciamento dell’immagine del megafono di Dio: nella disperazione, non una voce che richiama a Sé per dare conforto, ma una porta sbattuta e chiusa a chiave, poi il silenzio. Dov’è Dio? Aggiungerà:
«La stessa cosa sembra essere accaduta a Cristo: “Perché mi hai abbandonato?”. Lo so. Questo la rende più facile da capire?».
Il Diario di un dolore (in inglese, Un dolore osservato) rimetterà i punti interrogativi laddove Il problema della sofferenza sembrava averli dissolti. Il fatto è che la fede non è un anestetico. Si crede con la ragione ma si soffre con l’emozione. Lo sapeva bene C.S. Lewis che nelle sue lettere di risposta ai tanti lettori e fans spesso chiariva:
«La presenza di Dio non è la stessa cosa del senso della presenza di Dio. Questa ultima può essere dovuta all’immaginazione; alla prima si può non partecipare con “consolazione sensibile”. Il Padre non è stato veramente lontano dal Figlio quando questi ha detto: “Perché mi hai abbandonato?”. Voi vedete Dio stesso, come uomo, soggetto al senso umano dell’abbandono… È la presenza reale, non la sensazione della presenza, dello Spirito Santo che genera Cristo in noi. Il senso della presenza è un dono in più per il quale ringraziamo quando ci viene dato, e questo è tutto».
Non si può certo dire che Lewis non cogliesse l’essenziale.
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