
Abbiamo parlato, in due articoli precedenti, delle feste ebraico – cristiane come feste celebrative di eventi (QUI e QUI). Il video integrale della relazione tenuta il 27 marzo QUI. Adesso parliamo della Festa delle Capanne che ricorre in questi giorni di autunno.
Nell’ebraismo, il passaggio tra festa agricola e festa storica è avvenuto, come per Pesach (Pasqua) e Shavu‘oth (Pentecoste), anche per la festa delle Capanne, che però non ha lasciato un equivalente nel cristianesimo. Sukkoth (Capanne) fa memoria della permanenza quarantennale di Israele sotto le tende nel deserto, dopo essere nata come festa del raccolto autunnale.
Era una bellissima festa di luce, di acqua e di fede nell’Unico Dio. Durava sette giorni, più uno di riposo, e rappresenta il contesto di alcune fra le più importanti parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Permettete, allora, una digressione.
La festa delle Capanne nel IV Vangelo
È nel contesto della festa delle Capanne che in 7,37 s. Gesù proclama:
«Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno».
L’azione è localizzata a Gerusalemme. La pericope dell’acqua viva (Gv 7,37-39) è inserita nella lunga sezione (7,1-8,59) in cui Gesù si rivela nel Tempio durante la festa delle Capanne, e particolarmente nella sub-sezione riguardante l’insegnamento di Gesù nel Tempio l’ultimo giorno della festa. Questa auto-rivelazione che qui giunge al culmine, dunque, è legata ai contenuti e alle attese messianiche proprie della festa delle Capanne.
Il simbolismo della festa
Il simbolismo tipico di questa festa era caratterizzato da alcuni elementi principali:
- la dimora sotto le tende per l’intera settimana, a ricordare la permanenza di Israele nel deserto,
- la libazione dell’acqua, che viene versata intorno all’altare (m. Sukk. 4,9-10)
(la Tosefta collega questo rituale con Ez. 47 in cui le acque escono dal tempio: TSukka III,3),
- i riti di luce, con l’illuminazione della città mediante quattro lampade ad olio poste ai quattro lati del tempio nell’atrio delle donne (Mishnah, Sukk. 5,1-4; cfr. Zc 14,6 ss.);
- il rito dello sguardo: ogni mattina, al sorgere del sole, si distoglie il volto dal sole per rivolgerlo al tempio (m. Sukk. 5,4);
- l’utilizzazione del Nome divino (in greco Ego eimi = Io Sono: da Is 43,10 ss.) nella festa del Kippur che precede di cinque giorni la festa delle Capanne.
L’immagine della tenda, sotto cui ogni famiglia in Israele dimora per l’intera settimana della festa, è allusa nella dimora del Logos in mezzo a noi, ed è espressa nel Prologo (Gv 1,14) come un attendamento (eskenosen en hemin). Tutti gli altri elementi sono ripresi nei cap. 7-8 del IV Vangelo:
- l’acqua che sgorga dal Cristo / dal credente (7,38);
- la luce del mondo, che è Gesù (8,12);
- Gesù che “sta” in vista di tutti e proclama “Chi ha sete venga a me e beva…”
- il Nome divino, che risuona più volte nel cap. 8 (8,24.28.58).
Il rito

La festa delle Capanne era inizialmente una festa del raccolto autunnale, che segnava la fine dell’anno (Es 23,16; 34,22); poi, come tutte le altre feste bibliche, viene storicizzata, legandola all’evento dell’Esodo, e denominata Sukkot per l’elemento più appariscente del rito cioè la costruzione della Sukkah o capanna (vocabolo tradotto sempre dai LXX con skene, tenda), a ricordare il cammino nel deserto.
Divenuta una delle tre grandi feste di pellegrinaggio (Dt 16,16), la festa delle Capanne finisce col tempo per assumere un carattere escatologico, con una componente di attesa del compimento della presenza di Dio al suo popolo, e dell’arrivo dell’Era messianica. La libazione, in particolar modo, ricorda il dono divino dell’acqua nel deserto e l’effusione dello Spirito nell’ultimo giorno.
Il rito dell’acqua
Il trattato Sukka 4,9-10 della Mishna (inizio IV secolo) ricorda e descrive il rito mattutino dell’acqua: per sette mattine una processione guidata dai sacerdoti e dai cantori leviti scendeva alla fonte di Gihon dove un sacerdote attingeva acqua sorgiva con un’anfora d’oro (della capienza di 3 log = 1,8 litri). Attingendo alla fonte si cantava un versetto di Isaia (12,3): “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza”.
Poi la processione saliva al tempio al suono dello shofar attraverso la Porta dell’Acqua. Questa porta, secondo la letteratura rabbinica, aveva un significato escatologico, essendo identificata con la porta orientale di Ez 47,1-5 dalla quale sarebbero fluite le acque di vita sgorganti dalla soglia del tempio (t. Sukk. 3,2-20; Gen. Rab. 28,18; m. Sheqal 6,3; m. Mid. 2,6).
La gente portava nella destra il lulav (fascio di mirto e salice legati con palma), nella sinistra l’ethrog (limone o cedro che simboleggiava il raccolto); giunta all’altare, la processione festante vi girava intorno cantando i salmi 113-118 (l’Hallel), e alle parole di Sal 118,1 (“Rendete grazie al Signore perché è buono”) e 118,25 (“Salvaci, ti supplichiamo, Signore! Signore, ti supplichiamo, dacci successo!”) agitava il lulav.
Il sacerdote officiante versava l’acqua di Siloe e del vino in due recipienti a forma di imbuto posizionati sull’altare, permettendo all’acqua e al vino di scorrere a terra (m. Sukk. 4,9). Il settimo giorno si girava sette volte intorno all’altare.
Il simbolismo dell’acqua
La Tosefta Sukka 3,4-6 (III secolo), menziona più volte Ez 47,1-9, citando anche Zc 14,8 (“In quel giorno sgorgherà una sorgente e proprio quella sorgente toglierà il peccato e l’impurità”) in relazione al rito dell’acqua, facendo quindi della cerimonia una prefigurazione dell’effusione escatologica dell’acqua viva. TSuk 3,11-13 presenta invece la cerimonia dell’acqua come una rievocazione del dono dell’acqua da una roccia che accompagnava il popolo nel deserto. Un’altra interpretazione di carattere mitico voleva che grazie al rito le acque del tehom (abisso) sottostante al tempio sarebbero state messe in azione dalla libazione per fecondare la natura.
Oltre che al dono della pioggia, il rito dell’acqua era legato all’attesa messianica di un Maestro simile a Mosè (m. Sukk. 3,3-9) il quale avrebbe ripetuto il dono del pozzo della Torah (cfr. Num 21,18; CD 6,2-11; Ps. Philo, LAB 10,7; 11,15; 28,7 s.; Targum Onkelos su Num 21,18) che segue gli israeliti nel deserto (Targumin a Num. 21,18; T. Sukk. 3,10 ss.). I Targumin a Gen 49,10 utilizzano l’immagine dello scavar del pozzo, interpretato in relazione a quello che gli scribi fanno con la Torah, per promettere un futuro Messia che scava dal pozzo della Torah, il pozzo di Dio. Ricordiamo a questo proposito l’episodio della samaritana al pozzo in Gv 4.
Il rito della luce
Pur non essendo direttamente connessi con il logion sull’acqua, ricordiamo che la festa delle Capanne era caratterizzata anche da riti di luce (m. Sukk. 5,1-4): quattro enormi menoroth d’oro erano poste nell’atrio delle donne, da cui illuminavano Gerusalemme. Durante la maggior parte della notte, per ognuno dei sette giorni della festa, gli uomini devoti danzavano sotto le luci, mentre i leviti cantavano i salmi 120-134: “Non c’era cortile in Gerusalemme che non riflettesse la luce della Casa dell’Acqua Sorgiva” (m. Sukk. 5,3). Il rito presenta una connessione con l’immagine della colonna di fuoco che ha guidato Israele nel deserto (Es 13,21), e della quale si aspettava il ritorno alla fine dei tempi (cfr. Is 4,5; Bar 5,8 s.; Cant. Rab. 1,7.3).
Il rito della luce, attraverso il richiamo di Zc 14,6 ss., era legato a quello dell’acqua: “In quel giorno non vi sarà né freddo né gelo: sarà un unico giorno continuo (il Signore lo conosce); non ci sarà né giorno né notte; alla sera risplenderà la luce. In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale e parte verso il mare occidentale, sempre, estate e inverno”.
Il rito dello sguardo
Ma un altro rito era legato al tempio: al canto del gallo di ognuno dei sette giorni della festa, i sacerdoti procedevano verso la porta orientale dell’area del tempio e distoglievano lo sguardo verso est. Al momento del sorgere del sole, volgevano il dorso ad oriente e fissavano il Santuario, recitando:
“I nostri padri quando erano in questo luogo volgevano i loro dorsi al tempio del Signore e le loro facce ad oriente, ed adoravano il sole ad oriente [cfr. Ez 8,16]; quanto a noi, i nostri occhi sono rivolti al Signore”(m. Sukk. 5,4).
Anche questo rito coglie lo spirito di Zc 14,9: “Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo Nome”. Il tempio, dunque, è la luce del popolo, il luogo a cui guardare. Questo, per sette giorni. L’ottavo, invece, era dedicato alla convocazione assembleare ed al riposo.
Il grande giorno
Probabilmente è nell’ultimo, grande giorno della celebrazione, l’ottavo, che Gesù “grida” il suo invito: sta in piedi (il verbo istemi, usato da Gv 7,37, è lo stesso usato per il Risorto in Gv 20,14) e promette lo Spirito: non a caso, perché l’ottavo giorno si verificherà la sua Resurrezione (Gv 20,1) e la consegna dello Spirito ai discepoli (Gv 20,19 ss.).
È al tempo stesso l’ultimo giorno della festa delle Capanne in cui si annuncia l’azione salvifica di Gesù e l’ultimo giorno della sua vita, quando si verificherà quanto è stato annunciato, il vero ultimo giorno, quello di Gesù sulla croce che è anche il primo della vita nello Spirito.
Gesù sta e proclama nel tempio che egli è colui che dà l’acqua (7,37 s.) e la luce del mondo (8,12). E l’acqua della piscina di Siloe ridarà la vista al cieco nato per la parola di Gesù, Luce del mondo (Gv 9,6 s.). È Gesù che, per Giovanni, prende il posto delle istituzioni religiose giudaiche: è lui il tempio, il sabato, la pasqua, l’acqua, la luce, la vita… in lui la profezia passa da un luogo (un tempio, un pozzo…) ad una persona.
Rimane nel sottofondo della festa anche Num 20,3-13, nel cui racconto dalla roccia colpita da Mosè, scaturiscono, nel deserto, le acque: reminiscenze riprese così come sono meditate dal Salmo 78. “È così che era la sorgente che accompagnava Israele nel deserto; era simile a una roccia a forma di setaccio; scaturiva come se uscisse da questa anfora; saliva con essi sulle montagne, scendeva con essi nelle valli; là dove Israele soggiornava essa soggiornava davanti alla porta della tenda del convegno. I principi d’Israele la circondavano con i loro bastoni e dicevano su di essa il cantico [Num. 21,17]: ‘Sali, sorgente’ ed essa rispondeva loro zampillando e salendo in alto come una colonna, e ognuno, col suo bastone, la poteva attrarre verso la propria tribù e la propria famiglia” (Tosephta Sukka 3,11).
Questa ricchezza di significati è passata nel cristianesimo, ma non la liturgia che li esprime.
La Festa delle Capanne oggi

In assenza del tempio distrutto nel 70 d.C., la festa delle Capanne è ancora caratterizzata dal precetto di “abitare” in capanne durante tutti i giorni della celebrazione. Se a causa del clima o di altri motivi non si può dimorare nelle capanne, vi si devono almeno consumare i pasti principali.
«La capanna deve avere delle dimensioni particolari e deve avere come tetto del fogliame piuttosto rado, in modo che ci sia più ombra che luce, ma dal quale si possano comunque vedere le stelle. È uso adornare la sukkà, la capanna, con frutta, fiori, disegni e così via.
La sukkà non è valida se non è sotto il cielo: l’uomo deve avere la mente e lo spirito rivolti verso l’alto.
Un altro precetto fondamentale della festa è il lulàv: un fascio di vegetali composto da un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e da un cedro che va agitato durante le preghiere. Forte è il significato simbolico del lulàv: la palma è senza profumo, ma il suo frutto è saporito; il salice non ha né sapore né profumo; il mirto ha profumo, ma non sapore ed infine il cedro ha sapore e profumo. Sono simbolicamente rappresentati tutti i tipi di uomo: tutti insieme sotto la sukkà. Secondo un’altra interpretazione simbolica la palma sarebbe la colonna vertebrale dell’uomo, il salice la bocca, il mirto l’occhio ed infine il cedro il cuore. L’uomo rende grazie a Dio con tutte le parti del suo essere.
L’uomo è disposto a mettersi al servizio di Dio anche nel momento in cui sente che massima è la potenza che ha raggiunto: ha appena raccolto i frutti del suo raccolto, ma confida nella provvidenza divina e abbandona, anche se solo per pochi giorni, la sua dimora abituale per abitare in una capanna. Capanna che è insieme simbolo di protezione, ma anche di pace fra gli uomini. “E poni su di noi una sukkà di pace” riecheggiano infatti i testi di numerose preghiere; ci sono dettagliate regole che stabiliscono l’altezza massima e minima che deve avere una sukkà, ma per quanto concerne la larghezza viene stabilita solo la dimensione minima: nei tempi messianici infatti la tradizione vuole che verrà costruita una enorme unica sukkà nella quale possa risiedere tutta l’umanità intera».
Parole da meditare. Fonte: