
È dalla comunione con Cristo che siamo resi beati, non per i meriti della carne, fossero pure quelli della maternità di Maria. La fede autentica nasce dalla grazia di ascoltare e custodire, come Maria, la Parola (11,27-28).
Il rapporto con Maria
Luca ha già riportato il detto sulla parentela spirituale con Gesù (8,19-21), ma adesso la ribadisce con un detto che gli è esclusivo: una semplice donna del popolo loda la madre di Gesù col tipico linguaggio dell’epoca. Gesù usa questa affermazione per rimandare oltre: la vera beatitudine non è la maternità biologica, ma l’ascolto e l’obbedienza alla Parola, di cui Maria è – il racconto dell’infanzia lo ha detto chiaramente – il prototipo. Non c’è contrapposizione ai valori familiari, ma ridefinizione della Chiesa come famiglia di Gesù ben oltre i semplici legami di sangue e di appartenenza. Tra Madre e Figlio non esiste solo un rapporto viscerale di sangue. Esiste un rapporto di fede autentica…
La fede autentica e i segni
Così pure, fede non è cercare segni miracolistici (11,29-39): il segno di Giona è, come quello della regina di Saba, l’efficacia della Parola: una Parola che illumina e che chiede di illuminare, attraverso i cristiani, il mondo (11,33-36).
Quello che viene rifiutato è il segno esterno che dovrebbe infallibilmente dimostrare la fede; il bisogno dello straordinario, della rassicurazione mediante segni mirabolanti e prove il più possibile tangibili, a costo di essere ingannati da volontà subdole e da suggestioni diaboliche, è forte nella natura umana.
La fede autentica invece non consiste nel vedere o nell’avere prove scientifiche, ma nell’affidarsi anche nell’oscurità. Non sarebbe neppure possibile: come scrisse Franz Werfel, “Per chi crede nessuna prova è necessaria, per chi non crede nessuna prova è sufficiente”.
Più facile è invece abbandonarsi alla tentazione di trovare appoggi che infondono consolazione e devozione a livello psicologico. La fede cristiana non è sentimentalismo ma proposta severa di sequela del Cristo crocifisso e risorto.