Conoscere come vivesse la famiglia israelita al tempo di Gesù è fondamentale, perché la storia di Gesù parte da una famiglia. È qui, nella famiglia, che il Verbo si incarna facendosi uomo. Si incarna in una famiglia di un certo tipo, cioè delineata da particolari coordinate di spazio e di tempo che la rendono caratteristica. Una famiglia in cui valgono certe regole sociali e religiose anche se è regolata dall’amore.
A questo proposito, pensate al dramma di Giuseppe che si accorge che la fanciulla a lui promessa – e quindi già sposata con lui a tutti gli effetti, eccetto che per la convivenza – attende un figlio ma non da lui.
Pensate anche alla sua responsabilità nell’accettare e crescere un figlio non suo.
Pensate agli anni nascosti di Nazareth, quando Gesù, chiamato il figlio del falegname, è falegname a sua volta… A quale immagine di famiglia corrisponde tutto questo?
Lo stile di vita
La popolazione giudaica viveva concentrata nelle tre regioni in cui era divisa la Terra Santa. In Giudea, gli ebrei rappresentavano la maggioranza. In Galilea, vivevano accanto ai pagani; c’era inoltre la Perea, che era la regione transgiordanica, marginale per gli ebrei. La Samaria, posta fra Galilea e Giudea, era terra scismatica, abitata da una popolazione mista che secondo i benpensanti aveva tradito la purezza della Legge di Mosè.
La lingua locale era l’aramaico, che in Palestina aveva soppiantato come lingua parlata l’ebraico durante la dominazione persiana. Tuttavia, la lingua maggiormente usata nel Mediterraneo orientale era il greco, utilizzato nei rapporti internazionali.
Tranne eccezioni (rappresentate dalla classe sacerdotale di Gerusalemme e dai grandi proprietari terrieri), il popolo versava in condizioni economiche modeste. Esercitava soprattutto l’agricoltura e l’allevamento (principalmente in Galilea, dove si poteva anche pescare, nel lago di Tiberiade e nel Giordano), il piccolo artigianato, il commercio. La Giudea, regione desertica, consentiva solo una economia di sopravvivenza. La pressione fiscale, sotto la dominazione romana, era molto forte e mal tollerata.
Il matrimonio: l’obbligo di sposarsi
Il cuore della vita sociale e religiosa era la famiglia. Sposarsi e avere figli era considerato stretto obbligo religioso di ogni uomo, secondo il comando di Gn 1,28: «Crescete e moltiplicatevi…». L’obbligo di sposarsi e procreare era considerato secondo solo allo studio della Legge, perché mettendo al mondo figli si moltiplicavano sulla terra gli uomini, immagini di Dio.
Il celibato era guardato con disgusto, la sterilità con disprezzo. Un rabbi, Eliezer ben Hircano (fine I secolo d.C.), arriva a paragonare all’omicidio la volontaria astensione dalla procreazione. Di tutte le centinaia, forse migliaia di studiosi ricordati nel Talmud, solo uno, Simeone ben Azzai, rifiutò di sposarsi e rimase scapolo, pur predicando agli altri l’obbligo del matrimonio. Accusato di questo («Tu predichi bene ma non fai ciò che predichi») rispondeva: «La mia anima è innamorata della Torah. Il mondo può andare avanti per opera di altri» (TB Jevamot 63b). Simeone rimane una isolata eccezione, e proprio per la sua condotta anomala non fu considerato un rabbi.
Dal racconto della creazione, i rabbini deducevano che l’uomo merita tale nome solo quando si sposa, perché Dio «maschio e femmina li creò» (TB Jevamot 63a, su Gn 1,27). Inoltre, in ogni unione coniugale è presente Dio.
Il Nome divino, Jah, è inscritto nel nome dell’uomo (Ish) unito a quello della donna (ishah). Se invece da ish (איש = uomo maschio) unito a ishah (אשה = donna) si toglie Ih (יה = iniziale del nome del Dio di Israele) si ottiene solo esh (שא) = fuoco, distruzione dell’uomo stesso (TB Sotah 17 a).
Il matrimonio era considerato così importante che si pensava che fosse Dio a fare incontrare i coniugi: è una delle sue cure quotidiane, secondo il midrash.
Poligamia tollerata, non più praticata
Il racconto della creazione raccomanda la monogamia, mentre le storie dei patriarchi giustificano la poligamia e la legge di Mosè la dà pe scontata (Dt 21,15 ss.). Il diritto familiare rabbinico, tutt’oggi, sulla base del dato biblico e della prassi del Vicino Oriente, considera legittima la bigamia. Nessun maestro del Talmud ha, però, avuto più mogli contemporaneamente, e nel giudaismo europeo la poligamia sarà inesistente e verrà proibita dai rabbini nell’XI secolo.
Il matrimonio: le usanze
L’uomo si sposava verso i 18 anni, la donna a non più di 12-14. Il fidanzamento era già un contratto di nozze a tutti gli effetti tranne che per la convivenza, tanto che se l’uomo moriva prima delle nozze la fidanzata era considerata vedova, e se l’uomo voleva sciogliere il fidanzamento poteva farlo solo con un atto di ripudio per i motivi previsti dalla legge (Dt 24,1).
Un tradimento della donna durante il fidanzamento era considerato vero e proprio adulterio e prevedeva la lapidazione. Un sospetto di tradimento o una violenza subita comportavano la consegna del libello di ripudio. Ecco perché Giuseppe era dibattuto fra il dovere di eseguire la Legge e il desiderio di preservare Maria dalla vergogna.
Invece, se durante il fidanzamento la coppia avesse anticipato i tempi e messo in cantiere un proprio figlio, la cosa sarebbe stata deprecata, ma non ne sarebbero venute conseguenze, né ai sensi della legge né, in sostanza, nell’opinione pubblica.
L’unione dei fidanzati veniva perfezionata con la cerimonia delle nozze. Ai tempi di Gesù il principale festeggiamento consisteva nel corteo con cui il fidanzato accompagnato dagli amici andava a prendere la sposa, accompagnata anch’essa dalle amiche, per condurla alla propria casa. Qui aveva luogo il banchetto nuziale. Gli amici dello sposo erano detti «figli dello sposo» o «figli della camera nuziale», espressione che poteva estendersi a tutti gli invitati. Tra questi, un particolare «amico dello sposo» aveva un ruolo peculiare, paragonabile a quello del nostro testimone di nozze.
La donna
Il marito verso la moglie doveva usare riguardo e ritegno, «secondo le regole dei mariti ebrei che curano, onorano, alimentano e mantengono le proprie mogli». La donna portava con sé la propria dote di cui il marito aveva l’usufrutto; dopo le nozze, invece, qualunque cosa la donna acquistasse apparteneva al marito come proprietà.
La donna aveva una posizione subordinata non solo economicamente ma anche giuridicamente: non poteva ad esempio prestare testimonianza in giudizio. L’unico prestigio sociale spettava alla donna in quanto madre, anche se al tempo di Gesù le donne benestanti potevano occupare posizioni sociali di rilievo e talvolta anche trovare un proprio spazio religioso, come avveniva per le aristocratiche pagane che si rivolgevano al giudaismo.
Inidoneità cultuale
La donna era però culturalmente inidonea, non poteva prendere parte attiva ai riti comunitari. Era ammessa nel tempio solo fino all’atrio delle donne, e nella sinagoga poteva solo ascoltare. Era tenuta ad osservare tutti i precetti negativi della Legge, cioè le 365 proibizioni; non era tenuta ad osservare, dei 248 precetti positivi o comandi, quelli legati ad un tempo determinato. Il motivo addotto dai rabbini è che altrimenti la donna sarebbe sottoposta ad un doppio onere, avendo già quello domestico. La partecipazione al culto pubblico per gli uomini è un dovere, per la donna è subordinata al tempo disponibile. Tanto meno la donna era tenuta a studiare la Torah. Nel II secolo rabbi Jehudah proponeva questa preghiera del mattino:
Sii lodato perché non mi hai fatto pagano;
sii lodato perché non mi hai fatto donna;
sii lodato perché non mi hai fatto schiavo [o ignorante](Tos. Berakhoth 7,18)..
Il motivo non è il disprezzo verso queste tre categorie; è, invece, il fatto che queste tre categorie non hanno il dono dell’osservanza integrale della Legge. I pagani perché non la conoscono; gli schiavi perché non sono liberi di osservarla; la donna, “perché la donna non è obbligata ai comandamenti”.
L’impurità rituale
La donna, nel periodo fecondo della sua vita, era quasi sempre impura: mensilmente per le mestruazioni (compresa la settimana successiva); per 40 giorni come puerpera (80 se aveva partorito una femmina), dopo di che si purificava con l’offerta al tempio del sacrificio di un agnello e un colombo o di un paio di colombi se era povera.
Questa legge trovava ragione nel bisogno di riposo della puerpera, una sorta di legge di interdizione dal lavoro per maternità. Preciso che si tratta di impurità rituale e non morale. La donna impura non poteva toccare ed essere toccata perché l’impurità era contagiosa; altre donne, al suo posto, cucinavano e tenevano la casa. Questo ci spiega il dramma della emorroissa che da 12 anni viveva in uno stato di impurità continua e quindi di isolamento ininterrotto.
La donna e la Torah
Se ritualmente la donna era relegata ai ruoli domestici, moralmente non era considerata un elemento passivo. È vero che lo studio della Torah era compito degli uomini, e i rabbini non dovevano perdere tempo a parlare con una donna, neppure con la moglie, in quanto il loro tempo, prezioso, doveva essere dedicato interamente a soddisfare gli obblighi della Legge (Pirqè Avoth 1,5). D’altra parte, Talmud e midrashim, dopo il tempo di Gesù, riferiscono frequenti colloqui dei rabbini con donne, soprattutto romane, su questioni religiose.
Si affermava, inoltre, che le donne sono più sagge degli uomini: in Gn 2 si dice che Dio «costruì» (banah) la donna, «e questo ci insegna che in essa vi era maggior discernimento (binah) che nell’uomo» (TB Niddah 45b
Per di più, l’intera vita religiosa della famiglia si basava sulle vaste conoscenze della donna, che aveva anche il compito di istruire i figli piccoli e di spronare il marito e i figli grandi allo studio della Torah.
Il rabbino più grande di tutti i tempi, Aqivah (morto martire per mano dei romani nel 135), all’inizio era solo un pastore analfabeta. Quando ebbe 40 anni, la figlia del suo padrone si innamorò di lui e lo sposò a patto che iniziasse a studiare la Torah. Il padre li cacciò di casa ed ella tagliò e vendette la magnifica chioma per ottenere il denaro necessario allo studio del marito. Quando Aqivah divenne maestro di tutto Israele soleva dire ai suoi studenti: «Ciò che io sono lo devo a lei, e anche voi!» (TB Kethubboth 62b,63a; Nedarim 50 a).
I figli
La famiglia ebraica tipica viveva in una piccola casa per lo più di un solo vano, senza finestre, e dormiva su un solo giaciglio (ecco il perché, nella parabola lucana, del grande disagio dell’amico nell’alzarsi per accontentare chi lo chiama da fuori).
All’ottavo giorno dalla nascita il maschio veniva circonciso, anche di sabato, nella propria casa, solitamente dal padre, ma anche una donna in caso di necessità poteva compiere questo rito. Contemporaneamente il bambino riceveva il nome.
Appena erano in grado di parlare, i bambini imparavano lo Shema‘ e brevi preghiere. Qualche anno prima del raggiungimento della maggiore età religiosa (che corrispondeva ai 13 anni per i maschi) venivano abituati all’osservanza delle feste e ad un po’ di digiuno.
Le donne e i bambini fino a 13 anni dovevano osservare le proibizioni della Legge, non i precetti positivi che dovevano essere adempiuti in un tempo stabilito; così pure gli schiavi.
Le scuole
Già al tempo di Gesù esistevano in terra di Israele scuole pubbliche maschili, perché gli orfani ricevessero lo stesso insegnamento che gli altri ricevevano dai padri. La scuola iniziava a 6-7 anni; ogni 25 alunni si nominava un insegnante pagato con denaro pubblico (TB Bava’ Batra’ 21 a). I rabbini esigevano però che ogni padre insegnasse al figlio un mestiere, “perché chi non insegna al proprio figlio un mestiere è come ne facesse un brigante” (TB Qiddushin 29 a).
Gli schiavi
La schiavitù esisteva anche in Israele, però era molto umana e lo schiavo era considerato come una persona di famiglia. Lo schiavo ebreo doveva essere restituito alla libertà il settimo anno, perciò anche gli schiavi pagani erano stimolati ad ottenere la libertà mediante il proselitismo. Gli schiavi in Palestina erano comunque numericamente pochi, perché i ricchi erano scarsi; quando un ebreo cadeva schiavo di qualche pagano, i suoi correligionari cercavano di riscattarlo al più presto. A Gerusalemme c’era persino una sinagoga detta dei Liberti, cioè degli schiavi affrancati.