La Bibbia dall’ABC. La condizione umana

Cacciata dal Paradiso terrestre di Viligelmo. Mongolo1984, CC BY-SA 4.0,
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/37/Cacciata_dal_Paradiso_Terrestre_di_Wiligelmo_3.JPG

La triste condizione umana seguita al peccato. L’uomo e la donna non sono maledetti, ma è la natura che si rivolta contro di loro. In entrambi i casi si usa lo stesso termine dolore (‘itzvôn): la donna partorisce con dolore, la terra viene fatta partorire con dolore dall’uomo che la lavora; la vita non continua più con facilità e gioia ma con difficoltà e dolore. E l’ultimo dispetto della terra all’uomo è la morte, con cui l’uomo (fatto di terra) deve tornare al suolo da cui è stato tratto.

Secondo Von Rad, nella sentenza sull’uomo si trovano rispecchiate le condizioni di vita di due diversi tipi di esistenza per i contemporanei dell’agiografo:

3,17.19ab3,18.19c
Maledetto il terreno per causa tua!
Con pena ne trarrai il cibo tutti i giorni della tua vita.
Col sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai al terreno, dal quale fosti tolto.
  Spine e triboli ti produrrà,
e tu mangerai l’erba del campo,


perché tu sei polvere e alla polvere tornerai.

La prima formulazione si riferisce alla condizione degli agricoltori (fellaîm) e alla fatica della coltivazione, la seconda alla condizione dei beduini nomadi ed alla meschinità (più che alla fatica) del loro sostentamento. Queste formulazioni dovevano, in origine, essere separate (Von Rad p. 116 s.).

La fine del racconto, dunque, è uno sguardo dell’uomo sulla sua realtà quotidiana.

La condizione femminile

È un fatto che la donna partorisce nel dolore (più o meno), è un fatto che la donna sia attratta verso l’uomo ma ne venga dominata. È, per l’agiografo, l’evidenza di ogni giorno. È così, perché l’adam ha rotto con Dio, ha scelto le proprie leggi anziché le sue. Finché l’uomo domina sulla donna non compie la volontà di Dio, ma manifesta quanto sia separato da Dio.

La fine dell’uomo

Così pure, il lavoro è faticoso, penoso, spesso vano, perché è stato deformato dall’uomo con la sua volontà di potenza. E poi viene la morte.

La morte, in questa sentenza, non è vista tanto come la diretta punizione del peccato, quanto come la triste conclusione di una vita penosa.

«La sentenza di punizione non parla della morte come di un fatto principale, bensì della vita, e dichiara che la fatica e gli stenti dureranno finché l’uomo, nella morte, ritornerà alla terra. Non si può sostenere che l’uomo abbia perduto una “disposizione all’immortalità” né che si sia operata in lui una trasformazione materiale, per cui ora dovrebbe soggiacere alla morte. Che l’uomo sia stato plasmato con polvere, l’agiografo l’aveva affermato in 2,7…

Ora, di questa fine, l’uomo viene a sapere che cosa sia, ne prende coscienza e deve accettare che questa consapevolezza getti un’ombra su tutta la sua vita… Questa frase in tutta la sua intonazione è certamente deprimente per l’orecchio dell’uomo: essa non sarebbe mai stata rivolta così – comunque potessero andar le cose a riguardo della mortalità o immortalità degli uomini – all’uomo prima della sua caduta, e perciò, nematicamente, rientra con un peso particolare nella sentenza di punizione» (Von Rad p. 118).

In ogni caso, da quel giorno la morte, che doveva essere una «tranquilla partenza» (Péguy), diviene un distacco angoscioso, una lacerazione. «Prima, la morte era buona», dice il Midrash. È la sua modalità che terrorizza, adesso, l’uomo. Aveva creduto di diventare Dio; ma Dio resta Dio. L’uomo, che non ha accettato le leggi del paradiso, deve tornare alla terra dalla quale era stato fatto.

L’albero della vita

Le conseguenze del peccato. Di Maestro Bertram (1345-1415), Altare di Harvestehude (particolare) – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3825843

Sembra in genere da rivedere la dottrina dei doni preternaturali di cui si suppone godesse l’uomo allo stato paradisiaco:

  • l’immortalità, che non si può desumere dal testo, e così pure
  • la scienza non comune
  • l’esenzione dal dolore.

Il v. 22 è una constatazione ironica («Ecco, l’adam è diventato come uno di noi») e amara: l’uomo ha voluto scambiare il suo posto con quello di Dio, è uscito da un rapporto di dipendenza, il principio della sua vita non è più l’obbedienza ma la volontà autonoma per cui ha cessato di considerarsi come creatura.

Ne consegue l’allontanamento dall’albero della vita, riprendendo il racconto del capitolo precedente che Genesi 3,1-19 ignora e rivelando così, letterariamente, la presenza di una sutura.

“Anche” o “ancora”?

Il peccato ha messo l’uomo al posto di Dio ma senza farlo diventare Dio; l’adam cerca di usurparne le prerogative, ma non giunge al fine. La vita eterna (le‘ôlam) gli è negata. Il v. 22 può tradursi

  • «affinché non stenda la mano è prenda anche (gam) dell’abero della vita…»
  • oppure «e prenda ancora (gam) dell’albero della vita…».

Lo stesso vocabolo gam, infatti, può significare sia anche che ancora.

La prima traduzione è più corrispondente dalla costruzione grammaticale, e comporta che l’adam non si sia ancora cibato dall’albero della vita e non possa più cibarsi anche di questo.

La seconda è più corrispondente al contesto e comporta che l’adam si sia già cibato dell’albero della vita e non possa cibarsene ancora.

Sembra preferibile la prima traduzione, in forza di quel we‘attah (or dunque) che implica il non mantenimento da parte dell’adam del rispetto del divieto divino e quindi la perdita del diritto di accesso al dono di una vita eterna (legato alla permanenza nel giardino).

Questa vita non è necessariamente, nella prospettiva dello Jahvista, una vita immortale. La sua concezione della vita corrispondere dell’amicizia (shalôm) con il Signore Dio fino ad una morte in tarda età, cioè ad una vita lunga e prospera con la consapevolezza di lasciare una discendenza consistente ed un buon nome duraturo. Anche l’adam del paradiso terrestre è un uomo mortale che in modo naturale torna alla terra a cui appartiene. La morte nell’Antico Testamento è la rottura della comunione con Dio, perciò il peccato è in relazione con la morte. ciò a cui pensa lo Jahvista è che l’uomo è vivo non solo se respira, ma soprattutto se è in amicizia con il Signore, mentre la sua vita è già nella morte se è senza Dio.