La concubina di un levita: che parte può mai avere questo personaggio nella storia del popolo di Dio? Quello che siamo andati vedendo nel libro dei Giudici, cioè una discesa continua dell’Israele dell’epoca tribale verso la decadenza morale, non ha ancora raggiunto il massimo della depravazione.
Abbiamo visto il gesto selvaggio di Giaele, la degenerazione finale della stirpe di Gedeone, l’atrocità del voto di Iefte, la capricciosità di Sansone. È storia sacra questa? Sì, nel senso di una storia umana di cui Dio si serve per portare a salvezza. Senza per questo giustificare i mezzi che il peccato umano, in uno status, di libertà, gli fornisce. Non ci sono menzogne nella Sacra Scrittura, c’è la realtà dell’uomo anche in quella che è la sua infamia. Ma c’è anche di peggio, in un’appendice apposta al libro dei Giudici.
Le appendici al libro dei Giudici
Le appendici sono due. I cap. 17-18 riguardano la fondazione di un santuario nel nord, ad opera di un certo Mica. Egli vi prepone come officiante il proprio figlio e poi un levita arrivato da Betlemme. I Daniti, cacciati dagli amorrei, si impadroniscono degli oggetti sacri e si stabiliscono a Dan, ove trasferiscono il santuario stesso. Questo episodio si mostrerà in forte contrasto con lo spirito di centralizzazione del culto affermato con il libro del Deuteronomio e con la riforma di Giosia. Ma quello che più ci interessa è quel che segue.
La seconda appendice è costituita dai capp. 19-21.
Essi spiegano la distruzione quasi completa della tribù di Beniamino rifacendosi ad un brutale delitto dei beniaminiti a danno di una donna di Betlemme. Questo delitto viene punito da tutti gli israeliti con una vendetta tale da minacciare l’estinzione dell’intera tribù. Il rimedio è peggiore del male; per trovare le donne che si uniscano ai beniaminiti superstiti e ripopolino la tribù (dato che tutto Israele aveva giurato di non dare loro alcuna donna in moglie), si passano a fil di spada gli abitanti di Iabes che non avevano partecipato al giuramento, risparmiandone le vergini. Si consente inoltre ai beniaminiti di rapire le fanciulle che si recano ad una festa a Silo.
Convivono quindi una fedeltà ossessiva ai giuramenti – anche quando impongono di uccidere gli innocenti – e la più efferata spietatezza nei confronti degli esseri umani. C’è qualcosa che non va in questo tipo di morale.
Il ritornello che scandisce queste appendici (“In quel tempo non c’è era un re in Israele… ognuno faceva ciò che sembrava giusto ai suoi occhi”) appare di tendenza filomonarchica. Si spiega così perché il ricordo di questi fatti, antichissimo, sia stato inserito a questo punto. Vediamo in dettaglio questa seconda appendice.
La donna di Betlemme
Protagonista involontaria e vittima di questo episodio è una donna di Betlemme, concubina (cioè moglie secondaria) di un levita di Efraim. Di passaggio in una città di Beniamino, nessuno vuole accogliere la coppia in casa propria, se non un forestiero, egli pure efraimita. A questo punto accade una cosa atroce, quasi una ripetizione del trattamento riservato dagli abitanti di Sodoma agli stranieri (Genesi 19). Gli abitanti della città di Gabaa pretendono di avere nelle loro mani il levita per abusarne. Per trarsi d’impiccio, questi compie un gesto ancora più atroce. Getta fuori di casa la moglie in modo da abbandonarla alle loro voglie distogliendo così l’attenzione da se stesso.
La narrazione, spassionata, è terribile nella sua obiettività. La donna, abusata tutta la notte, la mattina si abbatte sulla soglia di casa. Il marito con estremo cinismo la incita ad alzarsi per ripartire, solo per accorgersi che la poveretta non può più rispondere. È già morta, o lo sarà poco dopo. Certamente indignato per le azioni che hanno portato all’uccisione della donna, che egli evidentemente considera di sua proprietà, il levita fa una cosa ancor più orribile. Senza alcun rispetto per lei, ne taglia il corpo in 12 pezzi spedendo i pezzi alle 12 tribù d’Israele per chiedere vendetta.
I leviti, tribù sacerdotale, non possiedono un territorio, in quanto solo il Signore è la loro eredità. Il levita in questione sembra a questo punto svolgere la parte di un referente che, in una situazione di totale confusione, richiama le 12 tribù (una per ogni pezzo) alla responsabilità dell’unità nazionale.
Comunque sia, mercificata dal marito che vuole solo salvare se stesso, violata per tutta la notte da una intera banda per soddisfare le voglie più basse, infine da morta guardata con cinismo e trattata come carne da macello, questa donna senza nome e senza voce è la quintessenza del femminicidio. Volete qualcosa di più?
La rappresaglia
Il seguito della storia non è da meno. È tutto un susseguirsi di ammazzamenti fino quasi all’estinzione della tribù di Beniamino, che viene impedita con mezzi non meno violenti.
«In quel tempo non c’era re in Israele; ognuno faceva ciò, che era giusto ai propri occhi» (Gdc 17,6; 21,25; cfr. 18,1; 19,1). Così finisce il libro dei Giudici, come una discesa all’inferno o almeno nell’inferno dei sentimenti e dei comportamenti umani, al colmo della violenza, indubbiamente allo scopo di spiegare perché ad Israele fosse necessario un re; un re che controllasse i propri sudditi privandoli di parte della loro libertà, visto l’abuso che ne compivano “facendo ciò che pareva loro”.
Nel primo libro di Samuele troveremo che il primo re, Saul, proviene precisamente da Gabaa, luogo di questo orrendo crimine. Proprio dove si toccò il fondo si può risalire a redimere la società. Oltre al monito a guardarsi dall’anarchia, questa atroce vicenda può ricordare che anche dal punto più basso dell’esistenza si può risalire e trovare un riscatto.
Bene, questo è ciò che poi è accaduto mille anni dopo. Il Cristo Gesù, disceso prima nel punto geograficamente più basso della terra (la valle del Giordano, al momento del battesimo – etimologicamente, dello sprofondamento) e poi nel luogo spiritualmente più infame (la croce), da lì prende lo slancio per innalzare se stesso e l’umanità al Padre.