Il Diritto Internazionale distingue lo ius ad bellum e lo ius in bello. Ne ha parlato la prof. Alessandra Viviani nel Convegno Giustizia e Pace del 2 febbraio scorso a Follonica.
Lo ius ad bellum è il diritto alla guerra, cioè definisce le legittime ragioni di uno Stato per intraprendere una guerra, in parole povere il diritto di fare la guerra.
Lo ius in bello è invece il diritto vigente in una situazione di guerra. Cioè stabilisce le regole di una guerra già in atto.
Lo ius in bello determina gli obblighi dei belligeranti, con regole ancora più severe, sia che si tratti di guerra tra Stati, sia che si tratti di guerra all’interno di un Paese.
Occorre ribadire che, anche laddove si dovesse ritenere che la Carta delle Nazioni Unite ormai abbia fatto il suo tempo e che le norme in essa contenute abbiano perso la loro efficacia vincolante (posizione che nessun giurista sostiene), questo potrebbe riguardare solo il divieto di uso della forza, il cosiddetto ius ad bellum. Si potrebbe, cioè, discutere su cosa si intenda per legittima difesa di uno Stato.
Lo ius in bello
Diversa invece è la questione delle norme dello ius in bello, cioè le norme che disciplinano lo svolgimento del conflitto armato e che impongono obblighi e divieti soprattutto rispetto al tassativo divieto della tortura e al trattamento dei civili, dei prigionieri e feriti di guerra, e dei beni di uso della comunità, con particolare riferimento a scuole, ospedali, edifici di culto e di valore storico culturale.
Tutte queste regole non sono messe in discussione. Queste regole, alla cui violazione corrispondono i crimini di guerra dei singoli individui, non possono essere mai violate e nessuno dubita della loro applicabilità nei territori occupati.
Lo Stato di Israele prima del 7 ottobre ha sostenuto di non doverle rispettare nella Striscia di Gaza non perché le ritenesse norme invalide, ma perché la Striscia di Gaza secondo Israele non era un territorio occupato militarmente data la mancanza di militari israeliani nella Striscia. Ma non basta questo per frodare il diritto: uno Stato può occupare un territorio altrui anche senza presenza militare; può farlo esercitando un controllo sull’entrata e l’uscita dal Paese, volandoci sopra, ecc. E questo porta automaticamente a dire che, se anche la ricostruzione della mancata occupazione fosse stata giuridicamente corretta, e non lo era, oggi, con la presenza dei militari sul campo, tutte queste regole devono trovare applicazione.
Genocidio
Il 26 gennaio la Corte Internazionale di Giustizia, nelle more della decisione definitiva ed ai fini dell’adozione di misure cautelari, ha emanato un’ordinanza di estremo interesse. ammettendo che quello che sta accadendo a Gaza somiglia ad un genocidio. Anche se si trattasse solo di un dubbio, è una materia di gravità tale che deve interrogare ciascuno.
L’istanza contro Israele
Il Sud Africa aveva presentato a dicembre un’istanza contro Israele con l’accusa di genocidio in reazione all’atto terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, sostenendo che le operazioni militari a Gaza hanno prodotto l’uccisione di 25700 palestinesi, 63 mila feriti, 260 mila case distrutte e 1,7 milioni di sfollati, vietando inoltre alla popolazione l’accesso al soddisfacimento dei bisogni primari. Ai sensi del Diritto Internazionale, questo è un crimine, rispondente alla volontà di distruggere un gruppo etnico e religioso.
L’ordinanza in risposta
La Corte Internazionale, pur condannando ovviamente ed incondizionatamente l’atto terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, considera lecito chiedersi se la reazione di Israele si sia mantenuta nei limiti del diritto internazionale o li abbia travalicati, sfociando addirittura nel crimine di genocidio, l’intenzione cioè di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso o una parte di esso sufficientemente importante perché la sua sparizione abbia effetti sull’intero gruppo.
“I Palestinesi” – si legge nell’ordinanza – “sembrano costituire un gruppo distintivo nazionale, etnico, razziale o religioso e quindi un gruppo protetto nel significato dell’Articolo II della Convenzione sul Genocidio”. “La popolazione nella striscia di Gaza supera i 2 milioni di persone” e “i palestinesi nella striscia di Gaza costituiscono una parte sostanziale del gruppo protetto”.
Sarà poi la Corte a decidere sulla commissione o meno del crimine di genocidio, ma sembra che si possa fin da ora affermare, alla luce dei fatti in corso, la violazione da parte di Israele del Diritto Internazionale umanitario, il che è tanto più grave per un paese che ambisce a qualificarsi Stato democratico di diritto.
Il provvedimento del 26 gennaio ordina dunque ad Israele di impedire la commissione di tutti gli atti che rientrano nel campo di applicazione dell’articolo II della Convenzione (uccisione, gravi lesioni, inflizione di condizioni di vita che determinano la distruzione fisica e misure intese a prevenire le nascite all’interno del gruppo; atti commessi con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo come tale). Israele dovrà anche garantire con effetto immediato che le sue forze militari non commettano nessuno degli atti sopra descritti, e adottare tutte le misure a sua disposizione per prevenire e punire l’istigazione diretta e pubblica di atti di genocidio contro il gruppo palestinese.
Il testo della Convenzione del 1948 sul genocidio
Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio
Art. I
Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire.
Art. II
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.