Intendiamo con questa espressione, «Protagonisti dell’Avvento», i personaggi biblici che nelle domeniche di Avvento ci accompagnano verso la celebrazione del Natale: Isaia, Giovanni Battista, la Vergine Maria – e Giuseppe, visto che la lettura evangelica della IV domenica è tratta dal vangelo secondo Matteo.
Se si fosse in tutt’altro contesto, si potrebbe dire che il mattatore in assoluto è il profeta Isaia, visto che tutte le prime letture delle Messe domenicali sono tratte dal suo libro, per non parlare di tutte le letture, festive e feriali, dell’Ufficio delle Letture: una costante che ci accompagna per quattro intere settimane. Ma l’espressione deve essere ridimensionata, dato il contesto biblico in cui ci muoviamo: perché caratteristica comune di questi quattro personaggi è la trasparenza: non fanno, non possono fare altro che riverberare l’Atteso, davanti al quale sono come finestre colorate che fanno trasparire la sua immagine.
Isaia, con il suo annuncio del Re che viene.
Il Battista Precursore, con il suo aprirgli la strada dicendo «Io devo diminuire, Lui crescere».
Giuseppe, l’uomo giusto, col suo trarsi in disparte e custodire l’operato di Dio.
Maria, il grembo della fede in cui l’onnipotente Dio si incarna nella debolezza umana.
Il profeta Isaia
Tutte le prime letture di questo anno sono tratte dal libro del profeta Isaia, il profeta messianico per eccellenza. Mi spiego: non tutti i profeti sono messianici. Alcuni nella loro predicazione si sono rivolti ai contemporanei solo in relazione ai fatti della loro epoca. Hanno anche promesso una consolazione futura, ma non legata ad una figura individuale di Cristo (in ebraico Mashîach, Unto cioè Consacrato): ad esempio Amos ed Osea. Invece Isaia, con pochi altri (tra cui spiccano i libri di Michea e Zaccaria), ha veramente e chiaramente annunciato l’avvento di un Consacrato che avrebbe redento Israele dalla sua schiavitù.
Le tappe decisive della vita di Isaia, il principe dei profeti di Giuda, si desumono con una certa precisione dal libro che porta il suo nome.
Il contesto storico e la vita
Nato verso il 770 a.C., dato il contesto in cui, si muove, è molto probabile che Isaia fosse di estrazione cittadina, nativo di Gerusalemme, ed appartenesse ai ceti superiori della città. Era sposato ed aveva dato ai figli nomi simbolici:
- She’ar-Jashûb = “Un resto tornerà”
- Maher-Shalal-Chashbaz = “Pronto alla preda, veloce al bottino”.
Delle sue condizioni personali non conosciamo altro; la sua vicenda storica si inquadra nel periodo di ascesa dell’Assiria di Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.), che nel 734 si affacciò in Palestina, provocò contro di sé la guerra siro-efraimita (cui Gerusalemme non volle prendere parte chiamando invece in proprio soccorso gli assiri), e sconfisse gli alleati conquistando nel 732 Damasco e nel 722 Samaria (con Sargon II che completò l’opera di Salmanassar V).
Si susseguirono vari moti di rivolta: Giuda ebbe parte a quello del 713, represso dall’Assiria, ed a quello iniziato nel 705. Quando nel 701 Sennacherib ebbe domato i fenici e sconfitto gli egiziani, anche Ezechia dovette capitolare e perse gran parte del suo regno (46 centri abitati), ma Gerusalemme fu salva (per debolezza interna dell’impero assiro, per la pressione esterna egiziana e forse per la peste di cui parla anche Erodoto, adombrata nell’intervento miracoloso di cui in II Re 19,35 ss.). Tutti questi eventi storici si rispecchiano con molta esattezza nella predicazione di Isaia.
Isaia, chiamato al ministero profetico nel 740 circa, visse fin circa il 701; della sua morte non sappiamo niente di certo. L’apocrifo Martirio di Isaia lo fa morire martire sotto Manasse (693-639), di cui 2 Re 21,16 afferma che fece uccidere alcuni profeti; l’Ascensione di Isaia precisa che l’empio re l’avrebbe fatto segare in due per aver egli paragonato Gerusalemme a Sodoma e Gomorra.
Il profeta della calma nella fede
Isaia è un profeta irruento, sicuro della propria missione e di sé, che non ha la timidezza di Geremia né l’asprezza di Amos profeta mandriano, né lo strazio di Osea sposo tradito. Non appare una figura tormentata. Pur aderendo con slancio alla propria vocazione (beninteso, dopo essersi dichiarato sgomento ed essere stato purificato con un carbone ardente), e dimostrando di non arretrare di fronte a niente, Isaia è il profeta della calma interiore nella fede.
Ogni profeta ha un proprio modello di vita interiore e di impegno. Amos è il vigoroso profeta della giustizia sociale; Osea il profeta dell’amore sponsale di Dio; Geremia ha una profonda esperienza della sofferenza; Ezechiele esprime l’anelito alla purità sacerdotale; e così via. Isaia è il profeta della calma. Evidenzia bene questa caratteristica nell’immagine che usa e nelle parole che dice quando va incontro al re Acaz minacciato dalla guerra:
7 2Allora il suo cuore e il cuore del suo popolo tremarono come tremano gli alberi della foresta davanti al vento. 3 Il Signore disse ad Isaia: «Esci incontro ad Acaz tu ed il figlio tuo Seariasùb all’estremità del canale della piscina superiore, verso la strada del campo del lavandaio. 4 Gli dirai: “Guarda di rimanere tranquillo, non temere…” 9 Se non crederete, non avrete stabilità».
Il contrasto fra l’immagine degli alberi che tremano scossi dal vento e quella della calma interiore cui il re viene invitato è molto efficace. Il verbo ’aman, qui, indica sia la roccia stabile che è Dio, sia la certezza che il credente vi trova. L’unica certezza. Ma il re ripone la propria fede solo nelle sue risorse umane, e rifiuta anche il segno che il Signore gli vuol dare.
In tutta la sua grande varietà e ricchezza di applicazioni, il messaggio di Isaia poggia su poche idee religiose. Questi sono i particolari settori riguardati:
- La critica ad una classe dirigente che vive nel lusso, opprime i deboli, alimenta un culto ipocrita per soffocare la propria coscienza proclamando di ricercare Dio.
- La fede come risposta positiva al piano di Dio nella storia, e quindi la fedeltà, la calma.
- Il resto fedele, mediatore di salvezza.
- Il Messia davidico.
- Il giudizio sulle nazioni.
Già Mosè, secondo lo jahvista (Es 14,13), aveva esortato gli israeliti a restare calmi e vedere la salvezza operata da Dio. E Isaia inizia il suo discorso ad Acaz con queste parole: “Sta’ in guardia, sta’ calmo” (7,4). Oltre 20 anni dopo, di fronte alla prospettiva dell’alleanza non più con l’Assiria ma con l’Egitto, Isaia ribadirà ugualmente:
«Perché così parla il Signore Dio, il Santo d’Israele:“Nella conversione e nella calma sarete salvi, nella perfetta fiducia sarà la vostra forza”. Ma voi non avete voluto» (30,15).
Questo atteggiamento dell’uomo è un’imitazione di un atteggiamento di Dio:
«Resterò tranquillo e mirerò dalla mia dimora
qual torrido calore alla luce del sole
e qual nube rugiadosa al calore della mietitura» (18,4).
Se Israele imparerà questo atteggiamento dal suo Dio, allora (32,15 ss.)
15 “alla fine sarà infuso su di noi lo spirito dall’alto;
il deserto diventerà un giardino
e il giardino si cambierà in foresta.
16 Nel deserto dimorerà il diritto
e la giustizia abiterà nel giardino.
17 Effetto della giustizia sarà la pace
e il frutto del diritto sarà sicurezza
e tranquillità perpetua.
18 Il mio popolo abiterà in una dimora di pace,
in dimore sicure e in luoghi tranquilli,
19 anche quando cadrà la foresta,
e la città sarà profondamente abbassata.
20 Beati voi che seminerete presso tutte le acque,
e lascerete in libertà buoi e asini”.
Questo è il contenuto della dottrina teopolitica, come la chiama M. Buber, di Isaia, dall’imminenza dell’intervento di Dio nella storia all’attesa messianica: «Lo star calmo è la santità come atteggiamento politico di Dio e del suo popolo» (la fede dei profeti, Marietti 2000, pag. 136).
Come ci prepara all’Avvento Isaia?
Della vita e della personalità di Isaia, rispetto ad altri profeti, sappiamo qualcosa. Ma quel che più importa è il messaggio che ci vuol trasmettere, questa trasparenza di fronte al Signore che viene, e che desumiamo dalle letture domenicali.
1. Il Regno che viene è un regno di pace universale
Isaia 2, 1-5
Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:”Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”.
Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.
La coloritura è escatologica: la fine dei giorni indica un futuro imprecisato, che si specifica come la fine del mondo nei testi più tardivi (Ez 38,16: «Salirai contro il mio popolo Israele come nube che ricopre la terra; ciò sarà negli ultimi giorni. Ti condurrò nella mia terra perché le genti vedano quanto mi mostrerò santo per mezzo tuo, o Gog, al loro cospetto»; Dn 10,14: «sono venuto per farti capire ciò che accadrà al tuo popolo nei giorni avvenire, perché è ancora una visione relativa ai giorni»).
Alla fine dei giorni, la montagna del tempio sarà stabile e solida sopra tutte le altre cime. Presso i popoli antichi, i monti erano la casa degli dei (cfr. anche l’Olimpo); l’altezza di Sion esprime anche la superiorità del Dio di Israele sugli altri dei e sugli altri popoli.
Il cammino dei popoli verso Gerusalemme sarà come l’afflusso di un fiume, il movimento continuo dei goîm (= popoli pagani) tutti quanti. È, questo, un tema ricorrente nei testi escatologici:
20 Così dice il Signore degli eserciti: «Ancora verranno popoli e abitanti di molte città.
21 Gli abitanti dell’una andranno da quelli dell’altra e diranno: “Su! Andiamo a supplicare il Signore, a cercare il Signore degli eserciti! Per parte mia ci vado!”.
22 E verranno grandi nazioni e popoli grandi a cercare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore!».
23 Così parla il Signore degli eserciti: «In quei giorni dieci uomini di tutte le lingue delle nazioni afferreranno un Giudeo per un lembo del suo mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo conosciuto che il Signore è con voi!”» (Zc 8,20-23).
Allora ogni sopravvissuto di tutte le genti venute contro Gerusalemme salirà di anno in anno per adorare il re, il Signore degli eserciti, e per celebrare la festa delle Capanne…
(Zc 14,16-21; cfr. Is 60,1 s.; 66,23).
Le nazioni stesse si invitano reciprocamente a salire alla casa del Dio di Israele non per portare doni, ma per ricevere l’insegnamento della Legge (le “vie” del Signore, come in molti scritti deuteronomistici: Dt 8,6; 10,12; 11,22; 30,16; Gs 22,5; I Re 2,3; 3,14; 8,58; 19,9; 26,17), la Torah, fino ad allora retaggio di Israele. Ma da Sion, da Gerusalemme la Torah si irradia adesso ad illuminare tutta l’umanità.
L’anti-Babele
Come una anti-torre di Babele, Sion, da cui promana la Parola del Signore, diviene segno di unione, di comprensione, caparra della Pentecoste: non sfruttatore dei doni di Dio, ma mediatore. «Un luogo e un popolo sono solo custodi del dono di Dio, nel senso che lo tradiscono se non lo comunicano: nessuno è grande se cresce in contrapposizione e a scapito degli altri, ma se aiuta gli altri a crescere» (Benito Marconcini, Il libro di Isaia (1-39), Città Nuova, Roma 1993, p. 51).
Si ha in questo testo un doppio movimento, «centripeto – ascensionale dei popoli che salgono verso la città e centrifugo – discensionale dell’irradiazione che da essa promana», che inserisce il rapporto JHWH – Israele nel più vasto rapporto JHWH – genti (Ibid., p. 52). Dio è sovrano di tutte le genti, e finalmente i popoli stranieri non vengono più per cingere d’assedio Gerusalemme, ma per godere della sua Legge e quindi della sua pace. Il regno universale del Signore, unico giudice e arbitro delle nazioni, è volontà di pace. La rinuncia alle armi e la loro trasformazione in strumenti agricoli è il segno esterno della collocazione di ogni fiducia in Dio.
L’universalismo
La teologia della storia di Israele è, così, basata sul tema del Resto santo (Is 6,13; cfr. 7,3), portatore della promessa, e del tronco di Jesse (Is 11,1), da cui nascerà il principe della pace. Sia la tradizione di Sion che quella di Davide sono tradizioni di elezione. Ma attraverso gli eletti la promessa si allarga a tutte le nazioni:
In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto fino all’Assiria.
L’Assiria verrà in Egitto e l’Egitto andrà in Assiria
e gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri.
In quel giorno Israele, il terzo con l’Egitto e con l’Assiria,
sarà una benedizione in mezzo alla terra.
Il Signore degli eserciti li benedirà dicendo:
«Benedetto sia l’Egitto, popolo mio,
l’Assiria, opera delle mie mani,
e Israele mia eredità» (19,23 ss.).
La gloria (Kabod) del Signore, che nella visione vocazionale invade fin negli angoli più riposti il Tempio, assume adesso proporzioni cosmiche: il Dio d’Israele è il Signore di tutto l’universo e di tutti i popoli, li ha creati e li conserva e li salva. Nel cap. 19, di cui abbiamo sopra appena citato un passo, l’universalismo di Isaia è espresso mediante la descrizione di una storia della salvezza per l’Egitto, oppressore storico del popolo di Israele, che vivrà in armonia con il tradizionale nemico, l’Assiria.
Cfr. Ef. 2:14 Egli infatti è la nostra pace, che ha fatto di due popoli una sola unità abbattendo il muro divisorio, annullando nella sua carne l’inimicizia,15 questa legge dei comandamenti con le sue prescrizioni, per formare in se stesso, pacificandoli, dei due popoli un solo uomo nuovo, 16 e per riconciliare entrambi con Dio in un solo corpo mediante la croce, dopo avere ucciso in se stesso l’inimicizia. 17 E venne per annunciare pace a voi, i lontani, e pace ai vicini.
2. Il libro dell’Emmanuele
Un grande tema del messaggio di Isaia è il motivo messianico davidico, espresso in brani meno diffusi ma assai importanti e di ampio respiro.
Lo sfondo storico di questa parte, la più celebre del libro di Isaia, è la guerra siro-efraimita (734 a.C.): i re di Damasco e di Samaria vogliono costringere Giuda ad un’alleanza con loro, ed ottenendone un rifiuto marciano contro Gerusalemme. Il messaggio profetico va oltre le prospettive umane di alleanze militari: è un messaggio di speranza centrato sull’intervento divino, mediato da un concreto discendente di Davide, probabilmente Ezechia. Anche il blocco poetico costituito dai capp. 7-12 è, però, eterogeneo, e si muove sul registro dell’attesa dell’intervento imminente di Dio, oltre che su quello dell’attesa di un mondo rinnovato. Tre sono i testi fondamentali; ne vediamo due, omettendo 8,23-9,6 che non fa parte delle letture domenicali di questo Avvento.
Isaia 7,10-14 (quarta domenica, retroterra del vangelo secondo Matteo)
In quei giorni, il Signore parlò ad Acaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto». Ma Àcaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore». Allora Isaìa disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele».
Questo oracolo è stato considerato fino al secolo scorso la profezia messianica per eccellenza; vediamo qual è il suo significato originario.
L’esortazione di Is 7,1-9 è indirizzata a mantenere la calma e a non temere durante la guerra siro-efraimita, perché l’attacco dei nemici di Gerusalemme sarà vanificato. Però, l’attenzione è concentrata sulla disposizione interiore dei protagonisti, sulla fede nell’intervento liberatore del Signore che agisce in modo pienamente autonomo, senza alcuna cooperazione umana. Damasco e Samaria, alleati, muovono contro Giuda. Il giovane re Acaz decide di invocare l’aiuto di una grande potenza, l’Assiria, e per ingraziarsi la divinità in questo grande momento «fa passare il figlio attraverso il fuoco» (2 Re 16,3), con una reale immolazione o con una cerimonia simbolica nella valle di Hinnon.
Isaia, che tiene per mano il figlio Shear-Jashûb (“Un resto tornerà”), è una protesta vivente contro il sacrificio del primogenito e la mancanza di fede nel Signore: è ora di convertirsi. Acaz, in particolare, deve rinunciare al «suo progetto di alleanza, sarà il Signore a proteggere la sua comunità. Rifiutando invece di chiedere un segno, egli dichiara di non voler rinunciare al suo progetto di salvezza. L’opera politica e militare dell’uomo non può che sbarrare la strada a Dio: l’unica cosa che Dio chiede all’uomo è mantenersi calmi, quella calma (nachath) che equivale a volgersi con fiducia a Dio salvatore.
Il termine ’ot = segno non indica di per sé un miracolo, ma si riferisce a ciò che è presente ed imminente, come i figli stessi di Isaia sono segni per Giuda. Naturalmente, un segno può essere anche prodigioso, ma è soprattutto qualcosa di materiale che rappresenta e garantisce il contenuto della parola di Dio. Lo schema letterario è quello dell’annunciazione della nascita di un salvatore, come per Isacco, Sansone, Samuele, da una madre solitamente sterile. Qui la madre è designata con il termine ‛almah che i Settanta e Matteo 1,23 rendono con vergine, mentre significa semplicemente giovane donna che non ha ancora partorito. Storicamente si pensa che alluda ad Abi, la giovane moglie di Acaz che non gli aveva ancora dato un erede.
Che senso ha l’atteggiamento di Acaz?
Acaz è un re devoto, a suo modo: ha fatto passare il figlio attraverso il fuoco (II Re 16,3), ha praticato il culto sulle alture, e farà costruire al sacerdote Uria un altare secondo il modello che avrà visto a Damasco, e vi offrirà sacrifici (2 Re 16,10-15); ma tiene la sua fede lontana dalla politica. Teme gli eserciti nemici, fa alleanza e fa guerre, e non vuole tentare il Signore, lo vuol tenere fuori dalle sue decisioni, non vuole un segno. In questo modo, si fa servo dell’Assiria.
La speranza dell’Emmanuele
La speranza di Israele si appunta invece, secondo Isaia, su un re fedele che nascerà dalla casa di Davide, che sarà veramente il segno dell’Emmanuele = Dio con noi.
Il nome Emmanule = Dio con noi è simbolico come i nomi dei figli di Osea e di Isaia, e può evocare il tema della guerra santa.
Cronologicamente, la profezia ben si adatta alla nascita del futuro buon re Ezechia, figlio di Acaz e di Abi, databile al 733/732 a.C. (siamo nel 735/734 a.C.). Questo principe sarà il re del resto fedele, e vivrà tempi difficili con il suo popolo finché non sarà spezzato il giogo della schiavitù assira imposto dalla politica di Acaz. Ezechia sarà il re attraverso cui Dio salverà il suo popolo.
Questo annuncio, pur concretizzandosi probabilmente in Ezechia, lascia aperti anche gli spazi per una speranza più grande, ancora lontana. È in questi spazi che si svilupperà l’attesa del messia perfetto. Di questa profezia infatti i LXX, che non l’avevano ancora vista adempiersi, e Matteo, che la vede compiersi nella concezione verginale di Gesù, danno il sensus plenior, cioè il senso più pieno, la portata più vasta e profonda leggibile solo nell’evento Cristo, di cui la profezia è come un’ombra anticipatrice.
Is 11, 1-10 (seconda domenica di Avvento)
«In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore.
Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra. Percuoterà il violento con la verga della sua bocca, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio. La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare. In quel giorno avverrà che la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli. Le nazioni la cercheranno con ansia. La sua dimora sarà gloriosa».
Ancora più proteso verso la dimensione messianica è l’inno di Is. 11,1-9, elaborato forse per l’intronizzazione di Ezechia. Nei vv. 1-5 il messaggio profetico si serve di simboli presi dal mondo vegetale: dal tronco inaridito della dinastia regale è spuntato un germoglio (nezer). Nasce, così, l’immagine del Messia-Germoglio che sarà ripresa da Ger 23,5 s.; 33,15 s.; Is 53,2; Zc 3,8; 6,12. Cfr. anche Is 4,2:
«In quel giorno il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra starà a magnificenza e ornamento per gli scampati di Israele».
Armonia universale
Da vegetale, il simbolismo dell’oracolo si fa animale. Riporto un commento di Benito Marconcini (Il libro di Isaia (1-39), Città Nuova, Roma 1993, p. 90 s.):
«Isaia vede in un’armonia universale l’effetto della giustizia. Per descrivere questo ha messo tutta la sua arte: c’è una triplice associazione di animale selvaggio e domestico (lupo – agnello / pantera – capretto / vitello – leoncello) con la menzione finale dell’uomo, ripreso nella sua debolezza, il fanciullo. Al termine della seconda terna un bel parallelismo (lattante-bambino) evoca i tempi delle origini con il superamento dell’inimicizia più radicale e temibile, quella del serpente. Si tratta di un’allegoria o di una profezia? Certo l’ipotesi di M. Buber che vede negli animali i simboli dei popoli, ritrovando così nel testo isaiano la speranza di una pace tra gli uomini, può portare a suo favore dei testi biblici (cf. Gen. 49,14-17-21-27). Ciò resta vero, ma non è tutto. Il testo dice qualcosa di più.
Sulla base di altri passi è legittimo pensare che tra l’uomo e il mondo infraumano (animali e creato) ci sia uno stretto legame. La bontà dell’uomo si riflette nel creato, anzitutto perché l’occhio puro vede tutto puro, come il peccato inquina l’ambiente. Un tema caro agli ecologisti, quello della stretta unione tra l’uomo e il creato trova poi conferma – questa volta purtroppo al negativo – già nella Genesi, secondo la quale la terra produce tribolazioni e spine per l’uomo peccatore (cf. Gen. 3,17-18).
“Il rapporto con la terra, nella quale l’uomo era stato posto perché ‘la coltivasse e la custodisse’ (2,15), non è più nobilitante, non è più una stupenda avventura ma una tortura, un peso sopportato ‘con dolore e col sudore del volto’. In queste parole ritroviamo tutto il dramma della scienza, della tecnica e del lavoro quando impazziscono e devastano il paradiso terrestre del creato. La nostra sensibilità moderna ci fa comprendere quanto sia terribile questo squilibrio tra uomo e natura. L’autore sacro, se avesse scritto ai nostri giorni, in quelle ‘spine e cardi’ avrebbe visto tutte le lacerazioni dell’ambiente perpetrate dall’egoismo industriale, avrebbe anche introdotto l’incubo nucleare, espressione di una natura pervertita dall’uomo, che a sua volta si ribella e si fa minacciosa, trasformandosi in realtà ostile” (G. Ravasi).
Osea pochi anni prima di Isaia aveva contemplato gli animali come parte dell’alleanza nuova. “Farò un’alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo” (2,20); il Terzo Isaia riprende il pensiero (65,25), già affinato da Ezechiele (34,25). La ferocia animale in realtà turba la pace al pari delle brutture del creato che attendono un loro superamento. “La creazione è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom. 8,20-21). Uomo e creato sono coinvolti in un identico destino, di morte o di vita, di armonia o di deturpazione: al volante della storia c’è l’uomo che vede accresciuta così la sua responsabilità».