Quarta domenica: una misericordia infinita
La misericordia infinita di Dio è il tema di questo percorso quaresimale nell’anno lucano (anno C). La lettura del vangelo della Quarta Domenica riguarda infatti la parabola che oggi viene chiamata preferibilmente «del Padre misericordioso», e in effetti il vero protagonista è il Padre; ma poiché appartiene alla serie delle parabole dei «perduti», ritengo che sia significativo anche il titolo tradizionale di parabola del figliol prodigo, o forse, meglio, quello di «parabola del figlio perduto»: perché, se si può smarrire una pecora ed anche una dracma, qui il perduto è un figlio; anzi, a ben vedere, i perduti sono due, perché evidentemente ci si può perdere anche senza muoversi da casa, il che è anche più grave perché meno percepibile.
Questa parabola si incastona nel grande capitolo della misericordia del vangelo di Luca (cap. 15), con le tre parabole dei perduti: la pecorella, la dracma, il figlio. Questo è il cuore tematico e il vertice del terzo vangelo, la rivelazione del cuore di Dio – o meglio, dovremmo dire, biblicamente, delle viscere di Dio: perché questo è il termine che la Scrittura usa per indicare in particolare il suo amore materno, viscerale. Gesù scandalizza scribi e farisei con la sua vicinanza ai peccatori, e manifesta ed insegna che la misericordia di Dio è sconfinata. Già in 6,36 aveva ammonito: Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro.
Tre parabole
Il punto centrale delle tre parabole è la gioia per la conversione del peccatore, di cui Gesù si presenta come mediatore. Esse terminano tutte e tre con un ritornello contrapposto alla mormorazione malevola del v. 2:
- «Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che avevo smarrita»
- «Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dracma che avevo smarrita»
- «Era necessario far festa e rallegrarsi, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»: questo, il padre del figlio prodigo lo dice per ben due volte.
Un crescendo
C’è anche una progressione, un crescendo nel capitolo: quello che si era perduto e si ritrova è una pecora su cento, poi una dracma su dieci, infine un figlio su due.
Il ritrovamento del figlio, per di più, è infinitamente più importante di quello delle altre due cose smarrite; non occorre nemmeno, quindi, ripetere a conclusione di questa parabola la spiegazione che Gesù dà per le prime due: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si pente che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza… Si fa gran gioia dinanzi agli angeli di Dio per un peccatore che si pente». Non occorre, perché trattandosi di un figlio la gioia è evidente.
Inoltre, la terza parabola contrasta per la sua particolare ottica con le altre due. Pur vertendo tutte sulla conversione del peccatore, i punti di vista sono diversi e complementari: la pecora e la dracma sono inconsapevoli, è il padrone che le deve cercare. È Dio (nelle vesti prima del pastore, poi della massaia) che fa il primo passo, che fa la ricerca. Il figlio prodigo, invece, scopre in qualche modo che la sua scelta è sbagliata, e fa un cammino di ritorno senza neppure sapere che il padre lo sta aspettando. Il padre non lo fa tornare indietro con la forza; semplicemente, lo attende con ansia, rispettando la sua libertà. Mentre le prime due parabole sono parabole della ricerca, la terza è la parabola del ritorno, due aspetti complementari del perdono in quanto incontro di due libertà.
Una parabola al maschile e una al femminile
Nella parabola della pecora smarrita (vv. 4-7), le immagini utilizzate sono quelle della vita rurale: il paradosso sta nella gioia smodata del pastore, che riflette la gioia di Dio nel prendersi cura del suo gregge.
L’antecedente veterotestamentario più diretto, oltre al Salmo 23, è il cap. 34 di Ezechiele, in cui i pastori di Israele sono accusati di aver abusato del proprio ufficio facendo il proprio tornaconto, mentre Dio stesso si presenta come il vero Pastore che cerca le sue pecore e le conduce ad ottimi pascoli: «Quella che s’è perduta l’andrò a cercare, quella che s’è allontanata la farò tornare, quella che s’è fratturata la fascerò, quella ammalata la farò ristabilire; veglierò sulla grassa e sulla robusta!». Il gregge non è una massa indistinta che confonde le individualità, ma una popolazione organica dove ciascuno ha le proprie specificità, non solo i deboli, ma anche i forti: le pecore lasciate al sicuro non hanno motivo di essere gelose! Dio ha amorevole cura anche di loro.
La brevissima parabola della dracma smarrita (vv. 8-10) è la gemella, al femminile, della precedente e la ribadisce: ancora più paradossale è l’ansia della ricerca e la gioia del ritrovamento, gioia comunitaria per un oggetto inanimato (una dracma equivaleva ad una giornata di lavoro di un operaio).
Quando i perduti sono due su due
Quanto alla parabola detta del figlio prodigo (11-33), diciamo intanto in sintesi che il peccato del figlio minore è rifiutare di essere figlio e pretendere di essere padrone di se stesso («Sarete come dèi, conoscendo il bene e il male»); ma anche il peccato del figlio maggiore è quello di non conoscere di essere figlio, prestando servizio al padre come può farlo un servo o un mercenario.
Il figlio che si è perduto fuori…
Un particolare interessante nella richiesta che il figlio fa al padre: le «sostanze» del padre sono chiamate ton bion, etimologicamente «la vita» [quel che serve a vivere]: il figlio non desidera che il padre si intrometta nella gestione della sua vita, vuole disporne da solo. Il risultato: la degradazione della schiavitù in terra impura, tanto che la più grande ambizione, ormai, è quella di nutrirsi del cibo dei maiali, senza poter giungere neppure a realizzare uno scopo tanto misero.
Il cammino di ritorno è ambiguo: la fame, non la consapevolezza della relazione filiale, spinge di nuovo dal padre il figlio minore, che ambisce solo ad ottenere cibo, in qualità di salariato. «Trattami come uno dei tuoi servi»: si tratta, comunque, di un rimettersi completamente nelle mani del padre, anche senza comprendere la forza del perdono, che sarà invece un perdono totale e incondizionato.
La forza del padre sta nelle sue viscere di misericordia: da lontano scruta l’orizzonte aspettando il ritorno, e l’unico suo sentimento è manifestato dal verbo esplanchnìsthe, sempre lo stesso che qualifica la compassione di Gesù verso il figlio della vedova di Nain (Lc 7,13), ma anche l’amore del Samaritano (Lc 10,33); e anche qui, come nella parabola del Samaritano, sette sono i verbi che esprimono l’atteggiamento di misericordia: prendere la veste, vestire, mettere l’anello e i sandali, portare il vitello, ucciderlo, mangiare e fare festa. L’anello indica l’autorità di una persona, e i sandali la condizione dell’uomo libero, la libertà recuperata; il banchetto rimanda ad un clima di comunione vissuta.
… e il figlio che si è perduto in casa
Di tutto questo il figlio maggiore ha sempre goduto senza averne consapevolezza; fedele e responsabile, ha vissuto però nella casa del padre come un servo, come un estraneo, e la sua logica è quella della meritocrazia, dell’osservanza glaciale della legge. Anche il figlio maggiore ha bisogno di comprendere che cosa significhi una relazione filiale – oltre che fraterna («questo tuo figlio…»: notate che, quando c’è insoddisfazione, il parente – figlio, fratello, ecc. – è sempre dell’altro: «Sai cosa ha fatto il tuo figliolo?»…).
Possiamo vedere nel contesto originario della parabola, nei due figli, l’antico popolo dell’alleanza, il fratello maggiore, che ha osservato la legge ma non ha compreso il cuore del Padre, e i goîm che, vissuti lontano dal vero Dio fra impurità e misfatti, sono adesso ugualmente chiamati a stare con Lui non ostante il loro passato di infedeltà e di dissipazione.
La risposta del padre è quindi una risposta di misericordia anche nei confronti del figlio che è sempre stato nella sua casa senza averlo compreso.
Un finale aperto
La risposta definitiva del figlio maggiore non ci è data: la parabola rimane come sospesa su questo finale aperto, e proprio per questo ci provoca: che cosa deciderà il figlio più grande? Entrerà alla festa o rimarrà fuori nel suo ritiro sdegnoso? La conversione del «giusto» può essere più difficile di quella del peccatore, ci dicono i Vangeli. Per essere ricolmati di doni, bisogna prima essere vuoti… Ma anche l’altro, il figlio prodigo, capirà finalmente che il padre non offre solo cibo e riparo, ma anche amore e comunione? E noi?
La parabola nell’interpretazione di Zeffirelli: QUI.
La parola dei Padri
Dalle «Lettere» di san Massimo Confessore, abate
(Lett. 11)
Tutti i predicatori della verità, tutti i ministri della grazia divina e quanti dall’inizio fino a questi nostri giorni hanno parlato a noi della volontà salvifica di Dio, dicono che nulla è tanto caro a Dio e tanto conforme al suo amore quanto la conversione degli uomini mediante un sincero pentimento dei peccati.
E proprio per ricondurre a sé gli uomini Dio fece cose straordinarie, anzi diede la massima prova della sua infinita bontà. Per questo il Verbo del Padre, con un atto di inesprimibile umiliazione e con un atto di incredibile condiscendenza si fece carne e si degnò di abitare tra noi. Fece, patì e disse tutto quello che era necessario a riconciliare noi, nemici e avversari di Dio Padre. Richiamò di nuovo alla vita noi che ne eravamo stati esclusi.
Il Verbo divino non solo guarì le nostre malattie con la potenza dei miracoli, ma prese anche su di sé l’infermità delle nostre passioni, pagò il nostro debito mediante il supplizio della croce, come se fosse colpevole, lui innocente.
Ci liberò da molti e terribili peccati. Inoltre con molti esempi ci stimolò ad essere simili a lui nella comprensione, nella cortesia e nell’amore perfetto verso i fratelli. Per questo disse: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi» (Lc 5, 32). E ancora: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9, 12).
Disse inoltre di essere venuto a cercare la pecorella smarrita e di essere stato mandato alle pecore perdute della casa di Israele. Parimenti, con la parabola della dramma perduta, alluse, sebbene velatamente, a un aspetto particolare della sua missione: egli venne per ricuperare l’immagine divina deturpata dal peccato. Ricordiamo poi quello che dice in un’altra sua parabola: «Così vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito …» (Lc 15, 7). Il buon samaritano del vangelo curò con olio e vino e fasciò le ferite di colui che era incappato nei ladri ed era stato spogliato di tutto e abbandonato sanguinante e mezzo morto sulla strada. Lo pose sulla sua cavalcatura, lo portò all’albergo, pagò quanto occorreva e promise di provvedere al resto. Cristo è il buon samaritano dell’umanità.
Dio è quel padre affettuoso, che accoglie il figliol prodigo, si china su di lui, è sensibile al suo pentimento, lo abbraccia, lo riveste di nuovo con gli ornamenti della sua paterna gloria e non gli rimprovera nulla di quanto ha commesso. Richiama all’ovile la pecorella che si era allontanata dalle cento pecore di Dio. Dopo averla trovata che vagava sui colli e sui monti, non la riconduce all’ovile a forza di spintoni e urla minacciose, ma se la pone sulle spalle e la restituisce incolume al resto del gregge con tenerezza e amore.
Dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi darò riposo (cfr. Mt 11, 28). E ancora: «Prendete il mio giogo sopra di voi» (Mt 11, 29). Il giogo sono i comandamenti o la vita vissuta secondo i precetti evangelici. Riguardo al peso poi, forse pesante e molesto al penitente, soggiunge: «Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 30). Insegnandoci la giustizia e la bontà di Dio, ci comanda: Siate santi, siate perfetti, siate misericordiosi come il Padre vostro celeste (cfr. Lc 6, 36); «Perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6, 37) e ancora: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7, 12).
San Giovanni Crisostomo, «Omelia I sulla penitenza»
Vi erano due fratelli, ai quali il padre divise le sue sostanze. Dei due uno rimase in casa, l’altro invece divorò quanto a lui assegnato continuando a vivere in terra straniera per non subire l’onta della miseria. Vi ricordo questa parabola per farvi toccare con mano che per quelli che lo vogliono v’è remissione anche se hanno peccato dopo il battesimo. Non ve ne parlo per spingervi al disimpegno ma perché non siate vittime di una tentazione che provoca danni ancora più gravi della stessa scioperataggine, cioè della disperazione…
Che cosa disse infine il fratello caduto nell’estrema malizia? Ritornerò da mio padre. Per questo il padre non aveva né proibito né impedito la sua partenza per una terra straniera, proprio perché imparando a sue spese potesse sperimentare i benefici goduti restando a casa; così spesso quando non credessimo alla parola di Dio, egli veramente permette che impariamo attraverso l’esperienza che noi facciamo.
Lo scialacquatore infine ritornò dalla terra straniera, dove aveva imparato a proprie spese in che male incorre chi abbandona la casa paterna per una lontana; ed il padre allora lungi dal far vendetta se lo accolse a braccia aperte. Come mai? Perché era padre e non giudice.
Si fecero quindi danze banchetti e feste, e tutto nella casa fu splendore e gioia. Cosa borbotti? Questa la ricompensa per il male commesso?! Non del male commesso, o uomo, ma del suo ritorno, non del peccato ma della penitenza, non della condotta perversa ma di quella mutata in meglio. Più interessante ancora il fatto che al figlio più grande il quale se ne lagnava il padre dolcemente cosi abbia replicato: Tu sei sempre con me, questi invece era perduto ed è stato ritrovato, era morto ed è tornato in vita. Vuol dire: «Quando va salvato chi era perduto, non è il caso che si giudichi promuovendo severe inchieste, ma è tempo solo di clemenza e di perdono».
Il medico infatti non si mette ad inquisire sul malato per richiederne conto e punizione, trascurando di curarlo; e se fosse degno di giusta punizione crederebbe già sufficiente la pena subita. Il prodigo stando in terra straniera e lontano dalla comunione dei suoi per tanto tempo, pagò con la fame, l’infamia e la lotta con mali gravissimi.
Perciò con l’espressione era perduto ed è stato ritrovato, era morto ed è risuscitato vuol dire: «Non guardare alla presente condizione, ma pensa alla gravità delle anteriori avversità; tu vedi un fratello, non un estraneo; è tornato ad un padre che non può rinfacciargli i precedenti trascorsi, ma deve ricordare solo quanto possa spingerlo a compassione misericordia amore e indulgenza, come si conviene a chi lo ha generato. Perciò questi non fece parola di ciò che il figlio aveva commesso ma di quanto aveva patito; non ricordò le sostanze che aveva divorato ma l’infinità di guai che aveva passato».
Allo stesso modo – con altrettanta anzi con maggiore cura – il buon Pastore andò in cerca della pecorella. Qui infatti era stato lo stesso figlio a ritornare, lì invece fu lo stesso pastore a cercarla e avendola ritrovata a portarla con sé; godette più per essa che per tutte le rimaste al sicuro; come vedi, la riportò senza batterla e caricandosela sulle spalle per tenerla con sé restituendola al suo gregge.
Sei convinto quindi che Dio non scaccia chi a lui ritorna ma lo accoglie non meno degli altri che praticano la virtù? La parabola ti fa vedere che Dio non va a domandar conto dell’operato degli erranti, ma anzi ne va in cerca e gode poi di averli ritrovati più che se fossero rimasti in salvo; non disperiamo se malvagi e non presumiamo se buoni, ma temiamo anche nel fare il bene di cadere per presunzione e di dover fare penitenza anche di questo peccato.
Ripeto quel che ho già detto all’inizio. Sono queste due tentazioni che minacciano la nostra salvezza: la presunzione se stiamo in piedi, la disperazione se siamo caduti in basso.
Quindi, per rendere cauti quelli che stanno in piedi, Paolo ebbe a dire: Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere … Temo che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato; per sollevare invece e ridare maggior coraggio a quanti dormivano o erano caduti in basso, protestò parimenti nella sua lettera ai Corinzi: Che io non abbia a piangere su molti che hanno peccato in passato e non si sono convertiti, dichiarando cosi degni di compianto non tanto i peccatori quanto i peccatori impenitenti. A questi ultimi si era pure rivolto il Profeta, dicendo: Forse che chi cade non si rialza e chi perde la strada non torna indietro? Ed anche Davide li richiamò dicendo: Se oggi ascolterete la sua voce, non indurite il vostro cuore come nel giorno dell’esacerbazione.
Dunque, finché potremo dire oggi non disperiamo ma poniamo ogni speranza di bene nel Signore, con la mente fissa nel mare della sua misericordia scuotendo da noi ogni cattiva coscienza e aderendo fermamente alla virtù, molto fiduciosi ma anche fermi nel proposito, dando prova cosi altissima del nostro pentimento, perché deposto quaggiù ogni peso di peccato possiamo stare con fiducia dinnanzi al tribunale di Cristo ed ottenere il regno dei cieli. Ci sia dato di conseguirlo con la grazia e per la misericordia di nostro Signore Gesù Cristo, cui assieme al Padre e allo Spirito Santo gloria potenza e onore, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.
Sant’Ambrogio, In Lucam, 7,213-230
«”Un uomo aveva due figli e il più giovane gli disse: «Dammi la mia parte di patrimonio” (Lc 15,11-12). Vedi che il patrimonio divino viene dato a coloro che lo chiedono. E non credere che il padre sia in colpa perché ha dato il patrimonio al piú giovane: non si è mai troppo giovani per il Regno di Dio, e la fede non sente il peso degli anni.
In ogni caso colui che ha domandato il patrimonio si riteneva capace di possederlo: Dio volesse che egli non si fosse mai allontanato dal padre, e non avesse ignorato gli inconvenienti della sua età! Ma poi se ne partì per un paese straniero – necessariamente dissipa il suo patrimonio chi si allontana dalla Chiesa -; lasciando la casa e la patria, “se ne partì per un paese straniero, in una regione lontana” (Lc 15,13).
Non c`è luogo più remoto di quello in cui va chi va lontano da sé, e si allontana non per lo spazio, ma per i costumi, si separa non per la distanza ma per i desideri, e, come se mettesse in mezzo l`onda dei piaceri mondani, con la sua condotta spezza ogni legame. Chiunque infatti si separa da Cristo è un esule dalla sua patria, diventa cittadino del mondo.
Noi altri, invece, non siamo stranieri di passaggio, “siamo concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio” (Ef 2,19); eravamo lontani, ma siamo stati fatti vicini nel sangue di Cristo (cf. Ef 2,13).
Ma non siamo maldisposti verso chi viene da una regione lontana, perché anche noi siamo stati in una regione lontana, come insegna Isaia; così leggi: “Per coloro che sedevano nella regione dell`ombra della morte, per loro è sorta la luce” (Is 9,2). La regione lontana è dunque quella dell`ombra della morte; ma noi che abbiamo per spirito dinanzi al volto il Cristo Signore (cf. Lam 4,20), viviamo nell`ombra di Cristo. Per questo la Chiesa dice: “Nella sua ombra sedetti desiderosa” (Ct 2,3).
Quello, vivendo nella lussuria, ha sciupato ogni ornamento proprio della sua natura: ebbene tu, che hai ricevuto l`immagine di Dio e che sei simile a lui, guardati bene dal rovinarla con una irragionevole e degenerata condotta. Tu sei opera di Dio…
“Venne la carestia in quella regione” (Lc 15,14): carestia non di pane e cibo, ma di buone opere e di virtù. Esiste un digiuno peggiore di questo?
In verità chi si allontana dalla Parola di Dio è affamato, perché “non di solo pane vive l`uomo, ma di ogni parola di Dio” (Lc 4,4). Se ci si allontana dalla fonte siamo colti dalla sete, si diventa poveri se ci si allontana dal tesoro, si diviene sciocchi se ci si allontana dalla sapienza, si distrugge infine se stessi allontanandosi dalla virtù.
È quindi naturale che costui cominciò a sentirsi in gravi ristrettezze, in quanto aveva abbandonato i tesori della sapienza e della scienza di Dio e la profondità delle ricchezze celesti (cf. Col 2,3). Egli cominciò a sentire la miseria e a soffrire la fame, perché niente è abbastanza per la prodiga voluttà. Sempre patisce la fame, chi non si sa nutrire degli alimenti eterni…
“E bramava di riempirsi il ventre di carrube” (Lc 15,16). I lussuriosi non hanno infatti altro desiderio che di riempirsi il ventre, perché “il ventre è il loro dio” (Fil 3,19). E a simili uomini quale cibo è più adatto di questo che è, come le carrube, vuoto di dentro, di fuori è molle, ed è fatto non per alimentare, ma per gravare il corpo, e che è più pesante che nutriente?…
“Ed ecco, nessuno gliene dava” (Lc 15,16); si trovava infatti nella regione di colui che non ha nessuno, perché non ha quelli che sono. Infatti tutte le nazioni sono stimate un niente (cf. Is 40,17); non c`è che Dio, “che vivifica i morti, e chiama le cose che non sono come cose che sono” (Rm 4,17).
“Allora, tornato in sé, disse: «Quanti pani hanno in abbondanza i mercenari di mio padre!»” (Lc 15,17).
È ben vero che ritorna in sé, poiché si era allontanato da sé. Chi torna infatti al Signore torna in sé, mentre chi si allontana da Cristo rinnega sé…
Ma chi sono i mercenari? Non sono forse quelli che servono per il salario, cioè quelli d`Israele? Che non perseguono il bene per amore dell`onestà, che sono attirati non dalla bellezza della virtù ma dal desiderio del guadagno? Ma il figlio che ha in cuore il pegno dello Spirito Santo (cf. 2Cor 1,22) non cerca il meschino profitto di un salario di questo mondo, perché possiede il diritto all`eredità.
Vi sono anche dei mercenari che sono impegnati nei lavori della vigna. Buoni mercenari sono Pietro, Giovanni, Giacomo, ai quali è detto: “Venite, farò di voi pescatori di uomini” (Mt 4,19). Costoro hanno in abbondanza non carrube, ma il pane: perciò poterono riempire dodici ceste di avanzi.
O Signore Gesù, se tu ci togliessi le carrube e ci donassi il pane, tu che sei il dispensiere nella casa del Padre! Se tu ti degnassi anche di accoglierci come mercenari, anche se veniamo sul tardi! Tu infatti assumi mercenari anche all`undicesima ora, e ti compiaci di pagare un`eguale mercede (cf. Mt 20,6-16), eguale mercede di vita, non di gloria; non a tutti infatti è «riservata la corona di giustizia», ma a colui che può dire: “Ho combattuto la buona battaglia” (2Tm 4,7ss)…
Se vi fosse restato anche quello, non si sarebbe mai allontanato da suo padre. Ma stiamo tuttavia attenti a non ritardare la sua riconciliazione, che il padre non gli ha ritardato. Egli si riconcilia volentieri, quando è pregato intensamente.
Apprendiamo con quali suppliche è necessario avvicinare il Padre. Padre, egli dice. Quanta misericordia, quanta tenerezza, vi è in colui che, pur essendo stato offeso, non sdegna di sentirsi chiamare padre! “Padre” – dice -, “ho peccato contro il cielo e dinanzi a te” (Lc 15,18).
Ecco la prima confessione della colpa, rivolta al creatore della natura, all`arbitro della misericordia, al giudice del peccato. Sebbene egli sappia tutto, Dio tuttavia attende dalla tua voce la confessione, infatti “è con la bocca che si fa la confessione per la salvezza” (Rm 10,10).
Solleva il peso della propria colpa colui che spontaneamente se ne carica: taglia corto all`animosità dell`accusa chi previene l`accusatore confessando: infatti “il giusto nell`esordio del suo discorso, è accusatore di se stesso” (Pr 18,17).
E d`altra parte sarebbe vano tentar di dissimulare qualcosa a colui che su nessuna cosa può trarre in inganno; non rischi niente, a denunziare ciò che sai esser già noto.
Meglio è confessare, in modo che per te intervenga Cristo, che noi abbiamo come avvocato presso il Padre (cf. 1Gv 2,1), per te preghi la Chiesa, e il popolo infine per te pianga. E non aver timore di ottenere. L`avvocato ti garantisce il perdono, il patrono ti promette la grazia, il difensore ti assicura la riconciliazione con l`amore paterno.
Credi dunque, perché il Signore è verità, e sii tranquillo, perché il Signore è potenza. Egli ha un fondamento per intervenire a tuo favore; altrimenti sarebbe morto inutilmente per te. E anche il Padre ha ben ragione di perdonarti, perché ciò che vuole il Figlio lo vuole anche il Padre.
Ti viene incontro colui che ti ha sentito parlare nell`intimo della tua anima; e mentre tu sei ancora lontano, egli ti vede e ti corre incontro (cf. Lc 15,20).
Egli vede nel tuo cuore, e corre a te perché niente sia di ritardo, ti abbraccia, anche. Nel venirti incontro è chiara la sua prescienza; nell`abbracciarti si manifesta la sua clemenza e il suo amore paterno. Si getta al collo, per sollevare colui che giaceva in terra carico di peccati, per sollevarlo verso il cielo in modo che possa cercarvi il suo autore.
Cristo si getta al tuo collo, per liberare la tua nuca dal giogo della schiavitù, e mettervi il suo giogo soave (cf. Mt 11,30). Non ti sembra che egli si sia gettato al collo di Giovanni, quando Giovanni riposava sul suo petto, con la testa rovesciata all`indietro?
Per questo egli vide il Verbo presso Dio, perché si era innalzato verso altezze sublimi. Il Signore si getta al collo, quando dice: “Venite a me, voi che siete affaticati, e io vi darò sollievo; prendete su di voi il mio giogo” (Mt 11,28-29). È in questo modo che egli ti abbraccia, se tu ti converti.