Parliamo qui di treno a vapore perché ho a disposizione delle splendide fotografie di prima mano. Di queste, alcune sono state scattate in Val d’Orcia, altre nella stazione di Piombino; tutte accomunate dalla passione per le vecchie locomotive che un tempo apparivano simbolo del progresso. Facciamo una carrellata di poesie.
Le foto sono tutte di Marco Novara
Carducci e il treno a vapore
Inno «A Satana» («Levia gravia», 1863)
Il «lavoro di una notte», scritto di getto con facilità e superficialità: in questo inno alla nobiltà della materia ed al progresso della ragione e della tecnica, racchiusi sotto la figura di «Satana», il nostro poeta si serve del simbolo del treno a vapore per esaltare le capacità umane di fronte a ciò che gli sembra il rinunciatarismo dell’ascesi cristiana.
Il Carducci prende infatti Satana come simbolo delle gioie terrene, del progresso della scienza e della libertà di pensiero. Il trionfo del progresso si riassume appunto nel simbolo della locomotiva. La concezione sbandierata dal poeta è ostentatamente contrapposta al cristianesimo, che per Carducci nega i beni del mondo, il progresso, la libertà. Satana, che trionfava nel mondo pagano, fu scacciato dal cristianesimo; ma oggi, secondo Carducci, la «forza vindice» della ragione ha di nuovo vinto ogni oscurantismo. E il treno a vapore ne è l’emblema.
Un bello e orribile / mostro si sferra,
corre gli oceani, / corre la terra:
corusco e fumido / come i vulcani,
i monti supera, / divora i piani,
sorvola i baratri; / poi si nasconde
per antri incogniti / per vie profonde;
ed esce; e indomito / di lido in lido
come di turbine / manda il suo grido,
come di turbine / l’alito spande:
ei passa, o popoli, / Satana il grande;
passa benefico / di loco in loco
su l’infrenabile / carro del foco.
Odi barbare 1877
Alla stazione in una mattina d’autunno
Trascorsi gli anni, il treno a vapore si trasforma invece per il Carducci in un empio mostro che gli sottrae la donna amata in uno scenario di tedio infinito. Ormai, il trionfalismo della ragione sembra esaurito.Quali sono i dolori e le speranze della gente che gli si affolla intorno?
Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?…
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi…
Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
Davanti San Guido (Rime nuove, 1887)
Successivamente, in anni molto più maturi, il poeta ambienta sul treno a vapore una poesia di casa nostra, ispirata dalla sua visita a Castagneto dove aveva trascorso l’infanzia.
È una poesia di movimento, evocato dai cipressi che balzano incontro al poeta, che deprecano la sua rapida fuga di fronte a ciò che conta, che corrono via; in realtà non sono i cipressi che si muovono, è il treno:
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
Anche in questa poesia, nelle due ultime strofe, il progresso è simboleggiato dalla vaporiera, salutato dai giovani che cercano di seguirne la rotta (la schiera di puledri), in contrapposizione al lento, solenne asino grigio che rappresenta l’immobilismo. Ma si tratta di un progresso che porta via il poeta dal suo passato negandogliene anche la nostalgia.
La ferrovia maremmana
La costruzione della litoranea toscana venne decisa nel 1860 dal Governo provvisorio toscano, sostituitosi a quello granducale. Le tratte Livorno Follonica (via Collesalvetti) e Cecina Saline di Volterra vennero inaugurate il 20 ottobre 1863. I lavori si conclusero il 3 agosto 1864 con il completamento fino al fiume Chiarone, allora confine tra il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio.
La prima ferrovia italiana era stata la Napoli -Portici (7 km, 1839), poi venne la Milano – Venezia iniziata nel 1841 ma completata solo nel 1878, la Torino – Genova (1848 – 1853), la Roma – Frascati (1856).
Il Granducato di Toscana ebbe la rete ferroviaria più sviluppata, ammontante a ben 220 km di binari.
Il lessico dell’Ottocento
Locomotiva
La parola locomotiva è attestata nell’italiano scritto dal 1826 riprendendo l’inglese locomotive (1823); alla base di queste forme vi è anche l’aggettivo tardo-cinquecentesco francese locomotif, etimologicamente loco motivus / «che si muove da un luogo».
Treno
Nel significato di convoglio di carri trainati da una locomotiva su tracciato di scorrimento, treno è attestato in italiano a partire dal 1862 (l’inglese train è del 1824, in questa accezione).
Ferrovia
Ferrovia è documentato nell’italiano scritto dal 1852. Si è diffuso anche per influsso del tedesco Eisenbahn; si pensa però chesia da ricollegare all’inglese railway (1756). Il francese ha chemin de fer (1784). Ai puristi però la parola ferrovia non piaceva. Nell’Ottocento, è accompagnata da voci e locuzioni rivali: strada (o via) ferrata, strada di ferro, cammino di ferro, ferrata, via di ferro, strada a guide di ferro, strada a rotaie.
Il treno nei poeti dell’Ottocento
Il primo a citare in una poesia le «ferrate vie» è Giacomo Leopardi (Palinodia al Marchese Gino Capponi,1835), ironizzando sulle magnifiche sorti e progressive dell’uomo:
«[…] Universale amore,
ferrate vie, moltiplici commerci,
vapor, tipi e choléra i più divisi
popoli e climi stringeranno insieme».
La parola treno è invece documentata in poesia per la prima volta nell’ode La strada ferrata di Praga, del 1878.
Emilio Praga, La strada ferrata
Quando, nel 1861, si pensò a costruire la ferrovia Milano – Pavia – Genova, il progetto prevedeva di far passare un viadotto nell’area dell’antico Lazzaretto. Gli interventi comportarono infine la distruzione del luogo manzoniano. L’anno successivo, il progetto prevedeva un altro scempio, il passaggio dei binari all’interno dell’Abbazia di Chiaravalle. Questo ispira Emilio Praga a comporre un’ode.
Il componimento oscilla significativamente fra preoccupazioni del poeta per il degrado della natura, e le sue speranze per un futuro migliore della vita dei contadini. Non troviamo qui il disegno di un idilliaco quadro agreste come oasi in cui rifugiarsi dalla vita cittadina; anzi, il poeta denuncia la miseria materiale e culturale delle classi svantaggiate. Il treno per lui presenta però caratteristiche di classe, come prodotto di una ricca borghesia capace di dominare la natura e la società («Veh! Coll’oro si fabbrican l’ale! / Veh, se i ricchi le sanno pensar!»).
Con la sua intrusione, il treno diventa protagonista della distruzione di un piccolo borgo agricolo («Addio, bosco di frassini ombrosi, / ondeggianti campagne di biade! / del villaggio tranquille contrade / dove giuocano i bimbi al mattin»), e una minaccia anche per i monumenti e i luoghi sacri: «Passerà nell’antico convento, /sulle fosse dei monaci estinti», e già «si abbatton torri e quercie e campanili».
Nella prospettiva positiva del progresso, il treno diviene nondimeno il simbolo di una nuova «arca di pace», capace di eliminare le distanze, affratellare gli uomini e unire i popoli, fino a bandire la guerra.
La strada ferrata
Addio, bosco di frassini ombrosi,
ondeggianti campagne di biade!
del villaggio tranquille contrade
dove giuocano i bimbi al mattin.
Addio, pace de’ campi pensosi,
solitarie abitudini, addio;
l’operaio sul verde pendìo
già distende il ferrato cammin…
Il treno, l’aratro e l’asino
Che diran gli infelici cui preme
la tremenda miseria del pane?
E cui nulla concede il dimane,
nella vita, che affanni e sudor?
Quando accanto all’aratro, che geme
lentamente nei solchi girando,
scorrerà, quasi ai pigri insultando,
l’uragano del nostro vapor?
Ahi l’aratro, il congegno diletto,
che diventa al confronto fatale?
Veh! Coll’oro si fabbrican l’ale!
Veh, se i ricchi le sanno pensar!…
Ah il Signor queste cose non fece;
no, per me, non ci vado in vapore.
Chi compar! L’asinello è migliore;
questo almeno il Signor ce lo die’».
Razza mesta, alle celie bersaglio
della plebe, cui sopra tu stai,
sul mio volto quel dì non vedrai
insolente il sorriso spuntar…
Arca novella di pace
E dirò: « Questo fischio fugace
gira il mondo e affratella le genti,
rispondetegli intorno plaudenti,
cospergete il gran carro di fior.
Esso è l’arca novella di pace,
che i futuri destini rinserra,
non più stragi di popoli in guerra,
non più schiavi di avaro lavor!
Voleran da villaggio a cittade
nuovi patti: cultore e artigiano
stesa ai ricchi la nòbile mano
insiem l’almo edificio alzeran.…
Che non siete più mandre indifese,
voi famiglie dei solchi dìlette,
ma dal vostro vessillo protette,
ma da legge che ingiusta non è.
Progresso, arte e natura
O Musa mia, perdonami
se ti ho costretta a far da moralista!
Ma sai quanto mi strazii
dei miseri la vista!…
Ma poi pagato l’obolo,
chi niegherà, mia cara, al tuo pittore
di spiegar l’ali a sciogliere
l’inno del suo dolore?
Deh guarda che monotona pianura!
Ve’ in che forma han conciata la natura!
Il mio convento gotico
sparve, e die’ passo a un muricciuola bianco
che dritto e ugual due miglia
va della selva al fianco.
Un ridotto di terra alzò la fronte,
e questo è il nostro fulgido orizzonte.
Dimmi, in che selve vergini
anderemo a studiar, Musa, dal vero?
Di pali il mondo copresi
che pare un cimitero;
si abbatton torri e quercie e campanili,
il cielo è tutto un rabesco di fili,
costumi e tipi perdonsi,
presto la moda viaggierà in vapore;
ammireranno i ciondoli
villico e pescatore.
Musa! E noi pingerem carta bollata
e canterem… la fisica applicata!
Giovanni Pascoli
Anche Giovanni Pascoli ha immortalato la linea ferroviaria nella poesia La via ferrata (Myrycae)
Tra gli argini su cui mucche tranquilla-
mente pascono, bruna si difila
la via ferrata che lontano brilla;
e nel cielo di perla dritti, uguali,
con loro trama delle aeree fila
digradano in fuggente ordine i pali.
Qual di gemiti e d’ululi rombando
cresce e dilegua femminil lamento?
I fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora, al vento.
Questa lirica fonde poeticamente gli elementi naturali e quelli artificiali; le tenui impressioni visive con le sonorità con cui si annuncia il treno.
Attualmente, in Toscana, una tratta storica è percorsa da una locomotiva diesel con vagone cento porte anni Trenta, da Firenze a Faenza e Ravenna: è il Treno di Dante, con partenza alle 8.50 e arrivo alle 11.57, ritorno con partenza alle 17.54 e arrivo alle 21.
La locomotiva (1972)
Anche il cantautore Francesco Guccini ha assunto la locomotiva come metafora rifacendosi ad un episodio realmente accaduto nel 1893. Il 20 luglio di quell’anno il fuochista anarchico Pietro Rigosi di 28 anni, sposato e padre di due bambine piccole, si impadronì di una locomotiva della stazione di Poggio Renatico presso la quale prestava servizio, e la diresse alla velocità di 50 km/h verso la stazione di Bologna: una corsa pazza, a quell’epoca. Pertanto il personale delle ferrovie deviò su un binario morto la locomotiva, che si schiantò contro alcuni carri merci. L’uomo, sbalzato fuori, rimase sfigurato e menomato, ma sopravvisse.
I motivi del suo gesto non furono mai del tutto chiariti, ma le idee anarchiche e la sua frase «Che importa morire? Meglio morire che essere legato!» convinsero l’opinione pubblica che si trattasse di un gesto di protesta contro l’ingiustizia sociale.
Guccini venendo a conoscenza di questa vicenda colse il significato anarchico del gesto e fece diventare il protagonista simbolo della lotta di classe. La locomotiva diviene così immagine del potere dell’uomo, un potere spesso usato per l’oppressione dei deboli, che in questo episodio viene invece piegato alla protesta, alla giustizia proletaria, alla vendetta. Il video della canzone QUI.
E per i nostalgici di quando si arrivava a destinazione tutti neri per il fumo della locomotiva, ecco QUI un video dal vero… però, che bellezza!
Anzi, per gli appassionati, questo QUI è proprio il treno che prendevo io da piccola quando andavo in vacanza da Livorno a Porretta Terme. Il video è noioso perché dura più di 20 minuti? Vi consiglio di guardare un surreale, ironico e bellissimo film basato sull’uso di un treno a vapore per salvare gli abitanti di un villaggio yiddish dalla deportazione, «Train de vie» di Radu Mihăileanu (1998). Ecco QUI qualche scena.