Possiamo anche cogliere un altro senso nella crescita spirituale di Abramo. Dai tempi più antichi, la tradizione giudaica ha interpretato i due principali nomi divini come espressione dell’attributo del rigore (Midat haDin) e dell’amore (Midat haChesed).
Il Dio da cui Abramo sente la richiesta di sacrificare il figlio è chiamato col nome di Elohim, nome comune, che nell’ebraismo rappresenta la giustizia, il rigore di Dio. La richiesta è tremenda. Il Dio che gli ferma la mano rifiutando il sacrificio è chiamato Jhwh, nome proprio del Dio di Israele, che nell’ebraismo rappresenta l’attributo della misericordia. Non è dunque Dio a mutare il proprio proposito (in effetti sarebbe assurdo), ma sarebbe Abramo a comprendere che quel Dio che egli adorava con tremore è invece il Dio di ogni misericordia e tenerezza.
Lo spossessamento di sé
Ma un mutamento si è introdotto anche nel rapporto fra Abramo e il figlio. Questi, «suo figlio», è divenuto, nelle parole del messaggero celeste, «il ragazzo» (v. 12), cancellando ogni traccia di possessivo. In realtà, è il legame di possessione che doveva essere sacrificato; e che Abramo effettivamente sacrifica quando fa il gesto di prendere il coltello: è il possessivo ciò che doveva essere «tagliato».
«Se il figlio di Abramo, il suo “unico”, è divenuto un “ragazzo”, è perché suo padre non l’ha risparmiato». Cioè, non gli ha impedito di andare, preservandolo per sé «in un gesto di possesso mosso dal desiderio di proteggere se stesso», tenendolo per sé per assicurarsi l’avvenire. «L’importante non era immolare Isacco, ma non trattenerlo presso di sé in un gesto di dominio» (ANDRÉ WÉNIN, Isacco o la prova di Abramo, Cittadella, Assisi 2005, p. 85 ss.).
Il sacrificio del padre
In realtà, il sacrificio non è quello del figlio ma quello del padre; il figlio ne esce salvo, ma il padre dentro di sé è morto ad ogni passo di quella salita al non meglio specificato monte Moria. L’animale sostitutivo del sacrificio infatti non sarà l’agnello, l’animale figlio, ma l’animale padre, l’ariete. In questo modo, la figura di Abramo diviene prefigurazione nientedimeno che del Padre che dona il Figlio per la vita del mondo. Un onore che nessun altro ha avuto.
Padre e figlio
Una precisazione: noi immaginiamo sempre Isacco come un ragazzino quando viene condotto sul monte del sacrificio; ma nella cronologia biblica ha 37 anni, è uomo fatto; però non è forse sbagliato raffigurarselo giovinetto, perché per un genitore, in fondo, il figlio resta sempre il suo nato, il suo bambino. Lo dimostra la tenerezza del dialogo al centro dell’episodio (22,7-8), fra il figlio che chiede spiegazioni sull’imminente sacrificio («ma dov’è l’agnello?») e il padre che risponde con lo strazio nel cuore: «Dio vedrà» – ancora quel terribile futuro. Questo breve dialogo è incorniciato fra gli appellativi intensamente affettivi in cui gli interlocutori si riconoscono reciprocamente: «Padre mio… Figlio mio». Nel breve dialogo, questi termini ricorrono ben quattro volte e sempre con il possessivo; la domanda di Isacco, straziante perché inconsapevole, fa raggiungere al racconto il culmine del pathos, come pure l’osservazione, insistita, che padre e figlio vanno entrambi unitamente.
Nel corso del racconto, Abramo parla quattro volte. Il terzo giorno di cammino si indirizza ai servitori; con la separazione dai servi l’attenzione si concentra tutta su padre e figlio. Gli altri tre interventi appartengono ad altrettanti dialoghi. Il primo e l’ultimo di questi, che incorniciano il testo, sono quelli di Abramo con Dio, sotto i suoi due nomi di Elohim e di JHWH, mentre il dialogo centrale è quello di Abramo con Isacco. In tutti e tre i casi, Abramo non parla di propria iniziativa, ma risponde ad una domanda; tuttavia è precisamente questa disponibilità all’appello altrui che fa di Abramo l’uomo del dialogo. «Dove sei?» aveva chiesto Dio all’Adamo. L’Adamo si era sottratto alla risposta: «Mi sono nascosto» (Gn 3,9 s.). Abramo invece si espone: «Sono qui». È con questa stessa formula che il racconto del sacrificio si apre e si chiude.
Il figlio della vecchiaia
Secondo il celebre commentatore medievale Rashi de Troyes (commento a Genesi 37,3: «Israele amò Giuseppe più di tutti i suoi figli perché era per lui un figlio della vecchiaia»), amare il figlio della vecchiaia, secondo il metodo del notarikon (acrostico), è amare lo splendore della propria immagine, un rispecchiarsi narcisistico amando se stessi. La prova cui Dio lo sottopone vuol misurare se in suo figlio Abramo ami il proprio riflesso o un-altro-da-sé, e perciò sia capace di amare Dio nella sua alterità radicale e di non vedere in Lui una replica di se stesso che soddisfaccia le sue manchevolezze. Più sarà capace di rompere con l’amore per il figlio, più sarà capace di amare Dio, più imparerà che l’amore di Dio è rottura, ma non necessariamente con gli altri: in se stesso, prima di tutto.
«Abramo parte per una destinazione che solo lui intende, ma che Dio non fissa, e finisce per arrivare a tutt’altro porto… Il cammino compiuto fino al Moria gli farà sorpassare la pregnanza narcisistica della propria immagine per accedere alla contemplazione del figlio di fronte a lui. È in questa prova che Abramo diviene padre e Isacco figlio» (SHMUEL TRIGANO, Le non-sacrifice d’Jsaac in Le sacrifice du fils dans les trois monothéismes, Cerf, Paris 1996, 18-26, p. 19).
La rinuncia al possesso
Abramo rinuncia alla propria paternità come possesso del figlio, tanto più che Isacco non figura da nessuna parte nella scena conclusiva (v. 19), e Abramo sembra tornare solo «verso i suoi ragazzi», i due servitori lasciati al v. 5 con l’asino ai piedi del monte del sacrificio, ed è con essi che va «unitamente verso Beer-Shebha», mentre l’espressione shenehem = entrambi, padre e figlio, è scomparsa. Il primo versante del testo della legatura d’Isacco (Gen. 22,1-11) indica dunque un movimento di disappropriazione, il suo secondo versante un movimento di aggiunzione, di crescita. Nel non-sacrificio di Isacco è in gioco non una logica di appropriazione in concorrenza con l’origine ma al contrario una economia che rende possibile l’unità nella polarità (legatura) o la molteplicità (S. TRIGANO, Le non-sacrifice d’Isaac, p. 25 s.).