Il sacrificio del figlio

Il sacrificio del figlio
Il sacrificio della figlia di Jefte. Di Francisco Goya – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=91395099

È d’obbligo, a proposito del sacrificio della figlia di Jefte, fare il parallelo con il sacrificio di Isacco. In effetti questi due giovani, vissuti in tempi e situazioni tanto diversi, sono i soli in tutta la Bibbia ebraica a essere definiti con il termine  yachìd, cioè “unico” (Gn 22,2; Gdc 11,34), a sottolineare il legame esclusivo con i rispettivi genitori. Isacco non è l’unico figlio di Abramo, ma a causa della promessa divina di trarre da lui una grande discendenza è come se lo fosse.

Il sacrificio del figlio

Nel racconto di Genesi 22 è Dio che mette alla prova Abramo, mentre adesso è Iefte che sfrontatamente mette alla prova Dio. Tentato in questo modo, Dio non risponde (Dt 6,16: Non tenterai il Signore Dio tuo»). Sul monte Moria l’immolazione del figlio non avviene, mentre in questo sconsiderato episodio per la figlia – unica – giunge la morte. Dio non interviene a salvare la ragazza. La voce divina sembra ormai tacere davanti al degrado dilagante nell’epoca dei Giudici; sarà il lettore a dover trarre le sue conclusioni. O forse Dio ancora parla, ma non vi è alcuno che oda la sua voce?

Quello che era stato chiesto ad Abramo era solo la fede. Iefte invece aveva offerto un atto magico, una sorta di do ut des. Nel caso di Abramo si era compiuta la volontà di Dio; qui si compie invece la volontà dell’uomo. Le pratiche idolatre comportanti il sacrificio di bambini erano particolarmente abominevoli agli occhi di Dio (ad esempio Lv 20,1-5). “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco […] perché il Signore detesta chiunque faccia queste cose” (Dt 18,9-12). Tali pratiche, dichiara il Signore nel libro di Geremia, sono «una cosa che non ho mai comandato, di cui non ho parlato, né è mai entrata nella mia mente» (Ger 19,5).

Tra Isacco ed Abramo, proprio come tra la figlia di Iefte e suo padre, il testo riporta un solo dialogo. In tutti e due i casi, il discorso del figlio inizia con la parola  avì  (“padre mio”), e quello del padre con  benìbitì (figlio mio / figlia mia). Nella Genesi, però, Abramo dichiara prontamente  hinnèni (“eccomi”), dimostrando al figlio una straziante vicinanza affettiva; mentre nel libro dei Giudici Iefte si rivolge alla figlia con un’esclamazione di dolore (11,35), attribuendole la colpa della sua rovina. Questo tipico atteggiamento extrapunitivo (la colpa è sempre degli altri) fa parte della personalità squilibrata del condottiero che si propone per condurre gli altri ma non è capace di condurre se stesso.

Il sacrificio di Isacco rappresenta la rinuncia, da parte di Abramo, a ciò che Dio gli aveva donato. L’esatto contrario del voto sconsiderato di Iefte, un voto che egli pronuncia chiedendo la vittoria, finendo poi per privarsi della sua unica figlia. Quella di Iefte è un’Aqedah al rovescio, un’Aqedah degenerata che non tiene conto delle leggi del Signore.