
Ci sono persone che si esprimono in maniera cattedratica perché vogliono far pesare il loro sapere, anche se non ne hanno nemmeno il ruolo. Poi ci sono veri cattedratici che si esprimono invece con disinvoltura, perché quel che dicono fa intrinsecamente parte del loro quotidiano. È quello che è successo all’Immacolata di Piombino, quando si è parlato di rapporto dell’uomo con la terra in una chiave di lettura particolare.
È stato infatti ospite degli incontri serali di spiritualità francescana, giovedì 5 dicembre, il prof. Alessandro Cocchi, fiorentino e agro-economista docente all’università di Firenze ma con un vissuto piombinese molto importante negli anni del Post Concilio, quando a venti anni iniziò l’avventura del gruppo di Esperienze e Incontri formatosi intorno al periodico omonimo. Erano gli anni Settanta, in cui la parrocchia, animata da padre Fiorenzo, padre Sergio, e sostenuta dal vescovo mons. Vivaldo, ebbe un peso determinante nella formazione di tanti giovani.
Ebbene, Alessandro, stabilitosi a Firenze (dopo aver preso moglie a Piombino, ha ricordato Cristina Mettini che lo ha presentato al folto uditorio attirato sia dalla ghiotta tematica che dalla conoscenza personale del relatore), si è impegnato nel suo campo di ricerca e di studio andando per il mondo per periodi molto lunghi, in collaborazione con l’Unione europea, la Fao, la Cooperazione internazionale allo sviluppo… E adesso si sente grato, ha detto egli stesso, per l’opportunità che gli è stata data di restituire qualcosa alla comunità che tanto ha contribuito alla sua formazione giovanile.
Il rapporto con la terra nelle culture “altre”
La Cooperazione internazionale allo sviluppo

Una lunga collaborazione con la Cooperazione internazionale allo sviluppo pone innanzi tutto una domanda: che cosa si intende per sviluppo? E che cosa è questa Cooperazione?
Prima di tutto: che cosa non è la Cooperazione internazionale allo sviluppo. Non è un’opera pia o di soccorso, ma è uno strumento della diplomazia. Tanto è vero che nei vari paesi fa parte del Ministero degli Affari Esteri. La sua opera è infatti quel complesso di azioni che l’Unione europea compie, per un paese terzo che ha bisogno di sviluppo, per attrarlo nella propria sfera di influenza. Per far ciò, occorre anche uno sforzo di riequilibrio delle disuguaglianze, e tale quadro giuridico vale per tutti i 27 paesi membri.
Ma a quale modello di sviluppo ci si riferisce?
Il modello occidentale di sviluppo

Il tipo di sviluppo economico in cui finora l’Europa e gli Usa hanno investito ha in realtà provocato gravi problemi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico, senza al contempo affrancare dalla fame i popoli del Sud del mondo. Questo modello è un modello in crisi, ormai insostenibile. È un modello adottati da tutti i regimi: è sostanzialmente identico in Cina, in Russia, negli Usa. Il mito tecnologico sposato da tutti i regimi è costituito dall’idea basilare che scienza e tecnica avrebbero risolto tutti i problemi della terra. Tutti ne sostengono gli stessi postulati di base, anche se più o meno occulti:
- L’uomo ha il diritto naturale di esercitare una primazia sui beni della natura. I suoi diritti fondamentali comprendono, oltre al diritto alla vita e alla libertà, anche il diritto alla proprietà della terra (cfr. già il filosofo seicentesco John Locke). Il diritto naturale dell’uomo alla terra ha determinato un approccio di proprietà, di possesso anche dei beni ambientali. Questa idea viene data per scontata come ovvietà, difesa anche dalla legge.
- Le risorse naturali sono considerate infinite. Questa visione poteva anche essere valida fino agli inizi dell’Ottocento quando la popolazione mondiale si aggirava sul miliardo di abitanti. Dopo 150 anni, nel secondo dopoguerra, la popolazione era salita a 2 miliardi, e dopo soli 80 anni, cioè oggi, con un balzo vertiginoso, ha raggiunto gli 8 miliardi di abitanti! Nel 1972, lo studio I limiti dello sviluppo del gruppo internazionale “Club di Roma” dimostrava che, con quel ritmo di crescita della popolazione e di prelievo dei beni naturali, verso l’anno 2050 l’umanità non sarebbe più stata capace di produrre e consumare come fa adesso. E a quell’epoca non si parlava ancora affatto di cambiamento climatico… Questo modello si è rivelato insostenibile.
Nel 1987, la commissione Onu preposta, nel documento La nostra casa comune, definisce per la prima volta che cosa sia la sostenibilità in termini di solidarietà intergenerazionale, ovvero garantendo la fruibilità dei beni anche alle successive generazioni: i diritti dei futuri. A questo punto ci chiediamo: per fare questo, ci sono modelli culturali alternativi che non prevedano proprietà della terra o patti di schiavitù? Oppure questi schemi di dominio sono connaturali all’uomo?
Il diverso rapporto di altri popoli con la terra
I Lacandones, discendenti dei Maya, vivono nelle foreste del Chiapas in Guatemala. La loro è una cultura residuale: sono ridotti a poche migliaia e vivono nel bosco in un vero rapporto sacrale con la natura. La Pachamama (in lingua quechua Madre Terra) non è deificata ma sacralizzata, ed è inconcepibile per l’uomo possederla. Quando c’è necessità di costruire una canoa, il Lacandòn utilizza un solo albero, chiedendo prima il permesso alla Terra e garantendo che preleverà solo quello. Con gli animali c’è un rapporto paritario. Per i Lacandones, l’elevazione spirituale non è un affrancamento dalla materia, ma è un entrare in sintonia con la natura.
I Qiché del centro sud del Guatemala, altro popolo di ceppo maya ma più numeroso dei Lacandones, sono agricoltori e piccoli allevatori. Secondo il Popol Vuh, libro di miti e leggende in lingua qiché, l’umanità è nata dopo diversi tentativi degli dèi, che prima hanno creato uomini di legno, poi di fango, infine, nella forma più perfetta, di mais. Con il mais infatti i Qiché hanno un rapporto sacrale, e quando si accingono a piantarlo eseguono prima rituali propiziatori alla Pachamama. Ma la cosa interessante, qui, è che il campo (milpa) esige la consociazione di coltivazioni di diversi vegetali, a file alternate: in questo modo si ottengono raccolti più produttivi a causa della diversità del suolo, e una maggiore difesa dall’eventualità di avversità.
In questo tipo di cultura, il tempo è ciclico: si vive secondo le stagioni. La prospettiva temporale di questi popoli è fatta di mesi e non di anni; non hanno quindi senso investimenti a lungo termine, come ad esempio la manutenzione delle strutture. L’economia è quella di sussistenza, mirata a sopravvivere. Un esempio di cultura della sopravvivenza è dato da un progetto volto ad aiutare una comunità di pescatori della Somalia: barche migliori, reti migliori, ma il risultato rimaneva invariato; semplicemente, i pescatori lavoravano di meno… perché volevano ottenere solo quello che bastava a sopravvivere!
Qualche riflessione in itinere
- Non basta perorare la causa della diminuzione dei consumi, occorre un modello economico totalmente alternativo, di cosiddetta “economia civile” o di Francesco (The Economy of Francesco), in cui l’impresa economica diventa una fonte di bene non solo materiale, ma anche culturale e sociale. In questo modello economico, al primo posto viene messa la solidarietà collettiva, compreso il riconoscimento dei bisogni della natura.
- Occorre riformare i sistemi di valutazione della ricchezza intesa come PIL: non possono basarsi solo su un Pil, devono prendere in considerazione anche la consumazione delle risorse.
- Il rapporto dell’uomo con la natura non è poi così scontato come nella nostra mentalità di occidentali: in altre culture la natura è sacra.
La densità della relazione tenuta dal prof. Cocchi ha colpito i tanti presenti suscitando anche, al termine, una interessante discussione. Grazie, Alessandro, e alla prossima volta!