Il problema della sostenibilità

Il problema della sostenibilità

Riporto integralmente la prima parte della relazione del prof. Alessandro Cocchi al Convegno di Follonica dell’8 marzo 2025.

«Gli anni in cui ho conosciuto don Enzo Greco, nel periodo in cui, giovanissimo, era responsabile del coordinamento dei gruppi giovanili in diocesi, furono sicuramente anni estremamente formativi per me e furono poi anche il trampolino per seguire la mia vocazione professionale che era quella di occuparmi dei temi della Cooperazione allo sviluppo.

Per molti anni, e tuttora lo faccio, mi sono occupato, mi occupo di progetti di sviluppo nei paesi che un tempo si chiamavano in via di sviluppo e che  oggi è più proprio chiamare paesi a basso reddito.

Mi sono occupato prevalentemente di sviluppo rurale. Infatti di formazione sono agronomo, mi sono laureato con un indirizzo specialistico in economia agraria, riguardante cioè tutti gli aspetti economici legati allo sviluppo rurale (e non soltanto agricolo).

Poi nel corso del tempo ho sempre lavorato come economista agrario perfezionando e approfondendo i miei studi anche attraverso un dottorato in Economia; e da qualche anno, da una decina d’anni, poco meno, insegno all’Università di Firenze, nella Facoltà di Economia, materie sempre legate allo Sviluppo e alla cooperazione internazionale.

Oggi vorrei cercare di declinare temi, che Anna ha declinato in termini biblici, invece in termini economici.

Il problema della sostenibilità

Quand’è che ci si comincia ad accorgere che il nostro modello di sviluppo non è più sostenibile? Quand’è che si comincia a capire che lo sfruttamento crescente delle risorse rende il pianeta sempre più fragile ma rende anche la società umana sempre più fragile e vulnerabile?

Non è stato un processo immediato, e neppure è stato un processo rapido perché si hanno innanzi tutto la prima rivoluzione industriale e poi lo sviluppo scientifico e tecnologico che attraverserà tutto l’Ottocento fino ad approdare alla seconda rivoluzione industriale, quella che comincia proprio nella seconda metà dell’Ottocento grazie alla scoperta dell’elettromagnetismo da cui provengono i motori elettrici e quindi le telecomunicazioni (Marconi, il telegrafo e così via).

L’illusione di uno sviluppo infinito

Tutta questa accelerazione del progresso tecnologico, economico e scientifico ha fatto crescere nella cultura collettiva l’idea che lo sviluppo potesse essere in qualche modo infinito. La tecnologia cresceva di giorno in giorno, le conquiste erano giornaliere, come lo sono oggi, del resto. E questo progresso infinito, questo sviluppo infinito ci ha fatto perdere di vista a poco a poco il fatto che la miniera da cui stavamo attingendo per costruire i nostri oggetti, ovvero la natura, invece, era finita, era esauribile, tutt’altro che inesauribile.

Il problema della sostenibilità: presa di coscienza

È soltanto nel dopoguerra dopo la Seconda guerra mondiale, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, che si comincia a prendere coscienza che il ritmo della crescita economica a danno delle risorse, che si accompagnava soprattutto nel secondo dopoguerra ad una crescita demografica sempre più accelerata, avrebbe reso il nostro modello di sviluppo, di convivenza, di crescita non più sostenibile. Già durante gli anni Sessanta, ma ancor più verso la loro fine, la preoccupazione per la sostenibilità del modello economico a cui tutti siamo abituati cresce e tocca vari ambienti, l’ambiente accademico ma anche la Chiesa.

È interessante ricordare alla fine degli anni Sessanta – lo richiama papa Francesco all’inizio della Laudato Si’ –  il pensiero e le parole di Paolo VI che nella OctogesimaAdveniens dice: attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura l’uomo rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Quindi c’era già la coscienza che quel modello di sviluppo di produzione e consumo avrebbe sortito dei danni irreparabili nei confronti della natura. Lo stesso Paolo VI nel 1970 alla FAO (l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura), davanti a ai convenuti di un convegno, parla della possibilità che sotto l’effetto dei contraccolpi della civiltà industriale si possa arrivare a una vera e propria catastrofe ecologica.

Lo dice  nel 1970, 55 anni fa, ma in ambiente scientifico si cominciano a drizzare le antenne e si sente il bisogno di approfondire: perché se lo dice il Papa a maggior ragione in ambienti scientifici dove queste cose si osservano e si sistematizzano c’era la coscienza che questo modello di produzione e consumo, questo prelievo incontrollato delle risorse della terra non sarebbe stato sostenibile.

Il Club di Roma

Quindi verso la fine degli anni Sessanta un gruppo di scienziati, premi Nobel e accademici si riunisce in quello che si chiamò e si chiama tutt’ora, perché esiste ancora, il Club di Roma (soltanto per il fatto che l’accordo fu firmato a Roma; adesso ha sede in Svizzera).

Questo gruppo che riuniva intellettuali e scienziati da tutto il mondo decide di commissionare un uno studio al MIT di Boston (una delle università tecnologiche più prestigiose al mondo) per capire effettivamente e fare delle previsioni su quanto durerà il nostro modello di sviluppo: se continuiamo così quand’è che andiamo a sbattere? oppure no, è un falso allarme?

Cercavano una risposta scientificamente fondata, un’evidenza costruita intorno a dati, numeri, proiezioni, non soltanto una affermazione non dimostrata su evidenze.

I limiti della crescita

Nel 1972 esce un libro intitolato I limiti della crescita, The Limits of the Growth: il titolo fa già capire qual era l’oggetto dello studio. Questo libro fece il giro del mondo vendendo milioni di copie e ispirando generazioni di scienziati.

In esso, ben sapendo che nessuno ha la sfera di cristallo e che nessuno è dotato di arti divinatorie, gli economisti costruiscono degli scenari: cosa succede se le cose vanno avanti così, se vanno avanti con queste variabili? Prendono così in esame in particolar modo cinque variabili.

Variabili dei futuri scenari

  • La popolazione. In quel momento – siamo alla fine degli anni Sessanta, la popolazione è ancora in crescita. A livello mondiale si sfiora una crescita del 3% l’anno che è moltissimo perché in pochi anni si raddoppia. E infatti si è raddoppiata più volte la popolazione mondiale. Si esce dalla seconda guerra mondiale che siamo tre miliardi sulla terra. Oggi siamo otto miliardi. All’epoca, questo tasso di crescita della popolazione ancora non accennava a diminuire. L’allarme demografico era sentito dappertutto: Ma quanti arriveremo a essere mai sulla terra!
  •  L’altra variabile è la produzione industriale, sempre in crescita.
  •  Un’altra variabile erano le risorse naturali da cui invece si prelevava sempre per costruire. Quanto ferro, quanto acciaio, quanta terra viene consumata? In quel momento si vive già la pienezza della rivoluzione agricola, la “rivoluzione verde”: dar da mangiare a una popolazione in crescita ha significato, soprattutto dal dopoguerra in poi, un’accelerazione della consumazione di terra. Si abbattono le foreste per avere sempre più terra da coltivare. Perciò, anche il saggio di prelevamento delle risorse dalla Terra era una preoccupazione da tenere presente.
  • Però era già presente la preoccupazione relativa all’inquinamento, altra dimensione da tenere sotto controllo. Si produce, si inquina, si consuma.
  • L’ultima dimensione in questo modello è la produzione agricola.

Appunto, queste cinque variabili vengono costruite sulla base dei dati statistici allora disponibili e vengono costruiti vari scenari di sviluppo.

Scenari di sviluppo: un modello non sostenibile

Cosa succede a queste cinque risorse, a queste cinque dimensioni se il mondo va avanti secondo questo modello di produzione e consumo? Se tutto va avanti così com’è, se cioè la popolazione continua a crescere al ritmo attuale? Cosa succede se il ritmo industriale continua con lo stesso tasso di crescita attuale? Se la consumazione delle risorse ambientali è uguale all’attuale? Si tratta di quello che fu chiamato il modello “Business As Usual” (BAU). L’acronimo BAU indica un vecchio modo di fare business, basato su compiti ripetitivi e nessun senso critico per cercare un miglioramento. Che succede se il mondo va avanti così, se il business va avanti così?

In questo scenario si prevedeva che il mondo andasse incontro a una crisi per il crollo della disponibilità delle risorse, per l’incapacità di sfamare tutti e per l’inquinamento ormai insostenibile.

Intorno alla metà del secolo successivo, cioè del nostro secolo, intorno al 2050, tra il 2050 e il 2070, si prevedeva all’epoca, cinquanta e più anni fa, che il mondo sarebbe andato a sbattere. Il nostro modello di sviluppo di produzione e consumo, il BAU, non sarebbe stato effettivamente sostenibile. Poi furono costruiti un’altra dozzina di scenari in cui grazie allo sviluppo tecnologico l’efficienza migliora, si consumano meno risorse, la curva demografica comincia a scendere e così via.

In tutti gli scenari comunque, 50, quasi 55 anni fa si prevedeva che prima o poi nell’arco di questo secolo il mondo sarebbe andato a sbattere: cioè il modello di produzione e consumo secondo lo studio del MIT pubblicato nel 1972 non era sostenibile».

(Continua)