Il problema della sofferenza: l’intervento di Elihu

Disegno per il libro di Giobbe, 1913. Robert Traill Rose

Il problema della sofferenza del giusto è il tema specifico di tutto il libro di Giobbe. Che cosa sta succedendo al nostro protagonista? Quale sarà l’apporto dell’intervento di Elihu, dopo l’intermezzo dell’inno alla Sapienza? (l’articolo relativo QUI).

Giobbe. Il contesto narrativo

Nello strato più antico del libro, databile ad un’epoca arcaica della riflessione di Israele, troviamo la figura popolare di un antico saggio, Giobbe, la cui vicenda, a lieto fine, doveva dimostrare che il momento della prova è transitorio (primo strato).

Questo spunto narrativo è stato raccolto dall’autore del secondo strato dell’opera, cioè nel dibattito fra Giobbe e i tre amici (cap. 3-27.29-31) secondo uno schema di interventi (3 X 3) tradizionale anche nella letteratura extrabiblica; dibattito che sarà poi concluso da un imponente intervento divino (cap. 38-39). Questo strato propone una sua visione del problema del dolore. Il secondo strato, quello centrale, è databile al 400 circa a.C.

Il problema della sofferenza: una nuova idea

Ad un certo punto ecco un terzo strato: un altro agiografo ha inserito un ulteriore intervento, riconoscibile nei discorsi di un quarto amico inatteso, Elihu (cap. 32-37), che spezza inaspettatamente il dialogo fra Dio e Giobbe con una serie di quattro discorsi che non lasciano poi traccia nel resto dell’opera. Si tratta chiaramente di una parentesi inserita nel dialogo costituente la parte sostanziale del libro di Giobbe. Questo intervento introduce un saggio di teologia più raffinata rispetto a quella, tradizionale, dei tre amici.

Un quarto strato, costituito da un altro inserto, sarà rappresentato dall’inno alla Sapienza del cap. 28, che serve da intermezzo anticipando la conclusione del discorso divino.

Un quinto strato, infine, è da alcuni individuato nell’ultima parte dell’intervento divino, nel secondo discorso di Dio (cap. 40-41), basato sulle famose descrizioni di Behemot e Leviatan, questi due mostri che rappresentano per certi aspetti, in senso materiale, il vertice della creazione divina.

Si pensa anche ad un sesto strato, una “sesta mano” potremmo dire, rappresentato da un’opera di censura, quindi di ritocco, di correzioni, per attenuare il tono della protesta di Giobbe, all’interno dei cap. 21-27, in quanto erano così esacerbate le espressioni di Giobbe, addirittura di accusa nei confronti di Dio che sembra calpestare ingiustamente l’innocente, che l’ultimo compilatore deve essere intervenuto per attenuare un poco questo scandalo, tanto era forte il grido di Giobbe, quindi c’è stato qualcuno che ne ha un poco addolcito il tono.

La redazione finale è certamente precedente al 190-180 a.C., epoca della composizione del Siracide che in 49,9 cita la condotta di Giobbe.

Il terzo quadro: l’intervento di Elihu

Compisizione del libro di Giobbe per cerchi concentrici
I vari strati che compongono il libro di Giobbe

Abbiamo visto la cornice narrativa (cap. 1-2 con conclusione nel cap. 42) con il suo ottimismo da happy end; implica il concetto di sofferenza come prova della fede. È il cerchio esterno, di colore celeste. Peccato che non sia sempre così.

Abbiamo visto anche il dialogo fra Giobbe e gli amici (cap. 3-27). È il secondo cerchio, quello arancione, ed è giusto che sia spezzato: non si chiude su niente. I discorsi dei tre amici persistono nella loro ossessiva teoria retributiva (sofferenza come castigo del peccato) e restano fermi al concetto tradizionale di retribuzione, che Giobbe non riesce ad accettare. Questo secondo quadro del dramma, abbiamo visto, rimane aperto sul grido di Giobbe: «L’Onnipotente mi risponda!» (31,35).

Adesso, nella terza parte del libro – terzo quadro -, assistiamo all’irrompere del giovane Elihu con una teoria nuova, quella della sofferenza come atto mediante cui Dio insegna l’umiltà (32-37). Elihu propone una teoria “pedagogica” del dolore, come un’educazione impartita all’uomo, giusto od empio che sia, perché si liberi sempre più dalle sue scorie accogliendo ed amando il progetto divino. In questo modo, i quattro discorsi di Elihu preparano il lettore al confronto diretto con il mistero di Dio. È il terzo cerchio, quello rosa, incompiuto anch’esso perché appare come una parentesi inserita nella sfida lanciata da Giobbe al suo Dio, e si dilegua senza lasciare traccia.

Seguirà una quarta parte: la sconcertante risposta di Dio (38-41) che lascia la sofferenza nel suo mistero. Questo cerchio, quello nero, preceduto dal giallo che rappresenta l’inno alla Sapienza di Dio nel cap. 28, è chiuso, perché per quanto riguarda il libro di Giobbe la risposta, che è una non-risposta, è definitiva. 

Parole di Elihu

William Blake, l'intervento di Elihu
William Blake, Elihu

Entra in scena un giovane, Elihu («Egli è il mio Dio»), figlio di Barachele («Dio benedica») figlio di Buz («Disprezzo») della famiglia di Ram («Elevato»): nomi di grande rilievo. Si presenta come un esponente di una nuova generazione che ascolta gli anziani ma sottopone a critica la loro sapienza. Si esprime con una certa prosopopea di fronte a coloro che sono più vecchi di lui. Rivendica la giustizia divina, conformemente all’assioma «Dio è Giusto e non può commettere ingiustizia»: «In verità, Dio non agisce da ingiusto e l’Onnipotente non sovverte il diritto!» (34,12). Chi può accusarlo di ingiustizia?

Quindi, afferma Elihu, la storia è nelle mani di Dio, e nessuno può giudicare il suo operato. Se apparentemente si mostra indifferente, bisogna però credere che accoglie il grido degli oppressi e il lamento dei poveri.

In sostanza, la grandezza di Dio è incommensurabile, e insondabile il suo pensiero. L’afflizione fa parte del suo disegno in un modo che non comprendiamo, ma serve ad insegnare l’umiltà davanti a Lui, quindi va accolta con spirito di sottomissione – o, potremmo dire, di fiducia.

Il monito di Elihu

35, 5 Contempla il cielo e osserva,
considera le nubi: sono più alte di te.
9 Si grida per la gravità dell’oppressione,
si invoca aiuto sotto il braccio dei potenti,
10 ma non si dice: «Dov’è quel Dio che mi ha creato,
che concede nella notte canti di gioia;
11 che ci rende più istruiti delle bestie selvatiche,
che ci fa più saggi degli uccelli del cielo?».
12 Si grida, allora, ma egli non risponde
di fronte alla superbia dei malvagi.
13 Certo è falso dire: «Dio non ascolta
e l’Onnipotente non presta attenzione»;
36,5 Ecco, Dio è grande e non si ritratta,
egli è grande per fermezza di cuore.
6 Non lascia vivere l’iniquo
e rende giustizia ai miseri.
7 Non toglie gli occhi dai giusti,
li fa sedere sul trono con i re e li esalta per sempre.
8 Se talvolta essi sono avvinti in catene,
se sono stretti dai lacci dell’afflizione,
9 fa loro conoscere le opere loro
e i loro falli, perché superbi;
10 apre loro gli orecchi per la correzione
e ordina che si allontanino dalla iniquità.
11 Se ascoltano e si sottomettono,
chiuderanno i loro giorni nel benessere
e i loro anni nelle delizie.
15 Ma egli libera il povero con l’afflizione,
gli apre l’udito con la sventura.

36,22 Ecco, Dio è sublime nella sua potenza;
chi come lui è temibile?
23 Chi mai gli ha imposto il suo modo d’agire
o chi mai ha potuto dirgli: «Hai agito male?».
24 Ricordati che devi esaltare la sua opera,
che altri uomini hanno cantato.
25 Ogni uomo la contempla,
il mortale la mira da lontano.
26 Ecco, Dio è così grande, che non lo comprendiamo:
il numero dei suoi anni è incalcolabile.

In sintesi

Il punto forte dell’argomentazione di Elihu è dunque l’inconoscibilità dei disegni divini e l’invito a fidarsi di Lui. Non dà spiegazioni della sofferenza degli innocenti, né sarebbe possibile; ma rappresenta comunque un progresso rispetto alle facili soluzioni dell’happy end o, peggio ancora, dell’equazione «sofferenza = empietà».

Nessuno risponde ad Elihu, né Giobbe né gli anziani amici. È come se la sua parola pendesse nel vuoto. Bisogna che si presenti in scena Dio per darle corpo.