
a.- Il personaggio e il suo libro
Di questo personaggio non conosciamo neppure il significato esatto del nome, che è stato tramandato diversamente nella tradizione ebraica (Habbaqquq: è un participio passivo con il significato di Abbracciato) e da quella greca (Ambacuc: questo nome designa una ortensia). Secondo Noth, il nome di questo profeta proverrebbe dall’accadico Hambaqûqu, che indica una pianta da giardino, forse la mentha aquatica. Nella tradizione dei Settanta, Abacuc sarebbe della tribù di Levi, cioè un levita, forse un sacerdote; due volte, nello scritto che porta il suo nome (1,1; 3,1), è detto navî, profeta, e questo titolo ha indotto molti critici a pensarlo membro di un circolo di profeti cultici; nessuna di queste opinioni ha un fondamento reale.
Di Abacuc non conosciamo il luogo di origine, né il periodo esatto del suo ministero. Poiché il profeta è, afferma,
«una sentinella in piedi sulla fortezza a spiare,
per vedere che cosa (Dio) mi dirà,
che cosa risponderà ai miei lamenti» (2,1),
egli non ha lasciato alcun riferimento a circostanze determinate, il suo messaggio è sempre valido e attuale. Fa menzione di sfuggita dei Caldei o Babilonesi (1,6), che stavano affacciandosi verso la fine del VII secolo, e può essere questa la datazione dell’attività profetica di Abacuc: fra il 605, quando si impose l’impero neo-babilonese in Giuda, e il 600, prima della caduta di Gerusalemme, di cui non fa alcuna menzione. Secondo Dan 14,33-42 un profeta Abacuc visse in Giuda: il dato non è storicamente attendibile, ma può confermare l’esistenza di una tradizione.
Gli oppressori di Giuda potrebbero, d’altra parte, essere gli assiri (prima, allora, del 612 a.C.), oppure i greci di Alessandro Magno (alcuni critici leggono Kittim invece di «Caldei»), o un nemico simbolico che indicherebbe gli oppressori di tutti i tempi, e la menzione dei Caldei in 1,6 potrebbe essere una glossa. Sono stati tolti, dalla profezia di Abacuc, tutti i nomi storici contingenti, perché ogni epoca potesse applicarla al suo presente, come un paradigma teologico interpretativo della storia.
Il testo
Il testo è giunto a noi in cattivo stato; talvolta i versetti non sono intelligibili neppure con l’aiuto delle versioni (i Settanta e, per il cap. 3, un’altra versione greca, indipendente, della Versione Barberini). Nel 1947 è stato anche scoperto nella prima grotta di Qumrân un manoscritto (1QpAb) contenente un Pesher di Abacuc, cioè una interpretazione dei due primi capitoli: questo tipo di commentario prima cita un passo e subito dopo lo commenta, secondo un testo ebraico che in questo caso non è quello masoretico. Il Pesher è databile dal II secolo a.C. al 70 d.C. Infine, Ab 1-3 è stato trovato anche in un rotolo di Murabba’at, contenente tutti i profeti minori, secondo un testo sostanzialmente simile a quello masoretico.
Oltre ad essere corrotto, il libro di Abacuc è anche di difficile comprensione perché presenta molti termini che non sono mai usati altrove.
Letterariamente, il libro di Abacuc è considerato meno pregevole rispetto, per esempio, a Nahum.
b.- Struttura del libro di Abacuc
L’articolazione del libro è abbastanza lineare:
- la prima parte è un dialogo fra il profeta e Dio,
- la seconda parte è una risposta di Dio,
- la terza parte è un salmo di intercessione.
Prima parte (cap. 1): il problema della sofferenza
Il profeta, di fronte alle ingiustizie ed oppressioni interne del regno di Giuda, chiede:
«Fino a quando, Signore?
Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?
Fino a quando implorerò e non ascolti?
a te alzerò il grido ‘Violenza’ e non soccorri?
Non ha più forza la Torah né mai si afferma il diritto.
L’empio infatti raggira il giusto
e il giudizio ne esce stravolto» (1,2 ss.).
Come Giobbe, Abacuc si tormenta. Dio è impotente o indifferente verso il male?
La risposta di Dio è il castigo per mezzo dei Caldei (1,5-11). Ma il profeta interroga di nuovo:
«Perché, vedendo i malvagi, taci,
mentre l’empio ingoia il giusto?».
1,12-17:
«Non sei tu fin da principio, Signore,
il mio Dio, il mio Santo?
Noi non moriremo, Signore.
Tu lo hai scelto per fare giustizia,
l’hai reso forte, o Roccia, per castigare.
Tu dagli occhi così puri
che non puoi vedere il male
e non puoi guardare l’iniquità,
perché, vedendo i malvagi, taci
mentre l’empio ingoia il giusto?
Tu tratti gli uomini come pesci del mare,
come un verme che non ha un padrone.
Egli li prende tutti all’amo, li tira su con il giacchio,
li raccoglie nella rete, e contento ne gode.
Per ciò offre sacrifici al suo giacchio,
perché fanno grossa la sua parte
e succulente le sue vivande.
Continuerà dunque a vuotare il giacchio
ed a massacrare le genti senza pietà?».
Come in Giobbe, anche in Abacuc lo scandalo del male nasce dall’ipotesi che Dio ne sia l’origine.
Seconda parte (cap. 2): la risposta
È la risposta definitiva di Dio:
«L’animo arrogante soccomberà,
mentre il giusto per la sua fedeltà vivrà» (2,4).
Contro il desiderio insaziabile dell’egocentrismo, il profeta propone la confidenza in Dio quale atteggiamento che apre alla salvezza.
Nei cinque «Guai!» che seguono (2,6-19) è annunciata la rovina dell’arrogante; la fedeltà del giusto, invece, consiste nell’adempimento dei precetti di JHWH.
San Paolo (Rom 1,17; Gal 3,11) cita Ab 2,4 per proclamare che il giusto viene salvato dalla fede e non dalle opere, con un’affermazione che differisce sotto tre aspetti da quella del profeta:
- In Abacuc l’espressione il giusto ha senso collettivo, mentre in Paolo ha senso individuale (= il singolo credente).
- In Abacuc si tratta della sopravvivenza fisica dalla catastrofe, in Paolo della salvezza spirituale.
- In Abacuc la salvezza è attribuibile alla fedeltà del giusto, nel Nuovo Testamento è frutto della fede in Cristo. Si deve alla traduzione greca di Abacuc se Paolo ha potuto così interpretare questo versetto, in quanto i Settanta invece che fedeltà hanno tradotto fede.