In ogni parte della Bibbia risuonano lamenti: il male è ovunque. L’uomo retto si lamenta col Signore perché la sofferenza lo colpisce, e allora dov’è la giustizia divina? Il Signore stesso si lamenta perché l’uomo lo tradisce e opprime il suo prossimo, e allora dov’è l’amore? L’esistenza del male che colpisce gli innocenti sembra mettere in discussione o l’Onnipotenza o l’Amore o la Giustizia di Dio. Anche Geremia, un po’ timidamente, cerca di farlo presente al Signore… Guardate come è esemplare la sua domanda:
12 1 «Tu sei troppo giusto, Signore,
perché io possa discutere con te;
ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia.
Perché le cose degli empi prosperano?
Perché tutti i traditori sono tranquilli?
2Tu li hai piantati ed essi hanno messo radici,
crescono e producono frutto;
tu sei vicino alla loro bocca,
ma lontano dai loro cuori».
Ognuno di noi potrebbe avanzare l’identica richiesta nella stessa forma. Alla lettera, l’inizio suona: «Giusto tu (sei) Signore, perché io intenti causa contro di te, ma ti vorrei parlare di diritto…».
Il problema del male
Anche se trepidante (Ti vorrei dire una parolina, Signore…), la richiesta, anzi la querela è forte. Il male prospera, apparentemente con il beneplacito divino! Ci sarebbe da far causa al Signore Iddio…
Il «rîb» è la lite giudiziaria; non sarebbe la prima volta che un personaggio biblico «fa causa» al Signore. Il Dio d’Israele, diversamente dalle divinità pagane, si lascia mettere in discussione senza per questo fulminare il malcapitato che osa iniziare una controversia con lui! Non è il dubbio che suscita l’ira divina, ma è l’oppressione del povero, la violenza contro l’indifeso…
Il dubbio e la malafede
Il dubbio non è il contrario della fede (card. Newman: «Mille dubbi non fanno una mancanza di fede»). Il contrario della fede è da una parte la sfiducia, dall’altra l’incoerenza della vita che con le azioni nega ciò che afferma a parole. Il dubbio in buona fede, persino il litigio con Dio non mettono in crisi la sua amicizia. È la malafede quella che provoca il castigo.
Eppure viene fuori una contraddizione: perché proprio le persone in malafede, che dovrebbero attirarsi il castigo con le proprie mani, ne sembrano esenti, prosperano in tutto quello che fanno? Questo sarà il grande tema del libro di Giobbe, che mette in discussione tutta la sapienza tradizionale: la sofferenza non è la punizione per il peccato, perché l’esperienza dimostra il contrario: i giusti soffrono, mentre gli empi sembrano trionfare in tutto ciò che fanno.
Il problema attanaglierà i sapienti di Israele per mille anni, finché non comprenderanno che lo scenario della esistenza terrena non è l’unico, la vita non finisce con essa e la giustizia trionferà nel mondo a venire. Su questa terra, però, i conti non tornano, non esiste una risposta razionale al problema della sofferenza del giusto, i dubbi si possono infittire, e la risposta può venire solo dalla sfera della fede. Così scrisse Trilussa in una poesia straordinaria:
La fede
Quella vecchietta cieca, che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse: – Se la strada nun la sai,
te ciaccompagno io, ché la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò ‘na voce,
fino là in fonno, dove c’è un cipresso,
fino là in cima, dove c’è la Croce…
Io risposi: – Sarà … ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede … –
La cieca allora me pijò la mano
e sospirò: – Cammina! – Era fa Fede.