Di nuovo Mosè torna a rievocare l’esperienza dell’Oreb, esperienza conclusa con il peccato del popolo, perché Israele non si insuperbisca, perché non pensi: Sì, è il Signore che mi ha fatto entrare nella terra promessa, ma a causa della mia giustizia o della rettitudine del mio cuore. È per la malvagità dei Cananei che Dio li scaccia servendosi di Israele, e per mantenere la parola che il Signore ha giurato ai padri, ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe. È per un miracolo della grazia divina, che perdona il peccato a questo popolo di dura cervice (= indocile come una bestia da soma che si impunta irrigidendo i muscoli del collo) (v. 6).
Il peccato del popolo
Per 5 volte, le 5 “unità” in cui è articolata questa sezione iniziano con l’affermazione che Mosè stette sul monte 40 giorni e 40 notti (9,9.11.18.25; 10,10), motivo letterario che ricorda all’Israele del tempo del re Giosia il senso dell’attesa nel digiuno e nella preghiera.
Per 4 volte, inoltre, nei primi quattro momenti, si menziona il fuoco, simbolo del Signore come si manifesta nel roveto (Es 3,2 s.) e sul monte Sinai (Es 19,16 ss.). Il fuoco divino è fuoco divorante, e chi vuol fare alleanza con questo Dio deve lasciarsene purificare. Ma nel momento stesso in cui Dio dà la Legge, svela anche il peccato del popolo, l’idolatria, continua tentazione e trasgressione di Israele.
Il peccato del popolo: il vitello d’oro
Il vitello d’oro di Aronne prefigura le due statue collocate da Geroboamo a Betel e a Dan, con la proclamazione: “Ecco, Israele, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (1 Re 12,28). Il peccato del Sinai è sempre attuale. Contro di esso muove il profeta: Dio è incompatibile con il male, la sua collera è finalizzata alla giustizia, e il profeta non deve conoscere compromessi come un servo della corte o un portavoce dell’opinione pubblica; ma deve conoscere perdono e misericordia, deve sapere che anch’egli fa parte del popolo peccatore, e non vuole salvare se stesso senza gli altri.
Frantumando l’idolo e bruciandolo nel fuoco, gettandone la polvere nell’acqua purificatrice, Mosè compie un atto di tipo sacramentale, che prefigura il perdono di Dio in una sorta di battesimo di acqua e di fuoco. È il grande orante che intercede per il suo popolo: la sua preghiera non serve tanto a “convincere” Dio quanto a scoprire i motivi di speranza nel mistero dell’azione salvifica di Dio.
La prima alleanza, infranta, viene grazie alla misericordia divina ripristinata. Questa volta viene anche ordinata la costruzione di un’arca di legno (10,1) per custodire le tavole della Legge: portata dai leviti (10,8 s.), è il segno liturgico del cuore dell’uomo al cui interno sarà scritta veramente la legge del Signore (cfr. Ger 31,33 s.). La menzione dell’arca è quasi assente nel Deuteronomio (si trova solo qui e in 31,26), essendo la teologia dell’arca più cara soprattutto alle tribù del Sud (Beniamino e Giuda), mentre una parte importante, rispetto alla tradizione P concentrata sul sacerdozio aronnitico, è assegnata ai leviti.