Come il Qoheleth, e ancor più di Giobbe, le Lamentazioni sono il libro del silenzio di Dio. L’uomo non cessa di rivolgergli il suo grido ma, al contrario dei libri narrativi in cui Dio ascolta e in qualche modo interviene, qui il Signore sembra avvolto e nascosta dal silenzio.
Tempo di guerra. Cinquantottesimo giorno
Ministero della difesa britannico: «La decisione del presidente russo Vladimir Putin di bloccare l’assalto all’acciaieria Azovstal indica probabilmente una volontà di contenere la resistenza ucraina nella città meridionale di Mariupol e di liberare forze da schierare in altre parti dell’Ucraina orientale. Un vero e proprio assalto sul terreno da parte della Russia all’acciaieria porterebbe probabilmente a numerose vittime russe e ad un’ ulteriore riduzione nell’efficacia complessiva dei loro combattimenti». Nel Donbass orientale «proseguono pesanti bombardamenti e combattimenti, con la Russia che tenta di avanzare ulteriormente verso Krasnyy Lyman, Buhayikva, Barvinkove, Lyman e Popasna». I russi, tuttavia, nonostante la riorganizzazione in corso,«stanno ancora soffrendo per le perdite sostenute precedentemente. Per provare a ricostituire le loro depauperate forze, hanno fatto ricorso all’invio in Russia degli equipaggiamenti inutilizzabili perché vengano riparati».
Nessuna tregua per la Pasqua ortodossa
Zelensky: «Sfortunatamente, la Russia ha respinto la proposta di stabilire una tregua pasquale». Secondo lui, il rifiuto «dimostra molto bene come i dirigenti di questo Stato trattano effettivamente la fede cristiana. Però rimaniamo fiduciosi, con la speranza per la pace e che la vita vinca la morte».
Papa Francesco: i rapporti col patriarca di Mosca sono molto buoni, ma «mi rammarico che il Vaticano abbia dovuto sospendere un secondo incontro con il patriarca Kirill, che avevamo programmato per giugno a Gerusalemme. Ma la nostra diplomazia ha capito che un incontro di noi due in questo momento potrebbe creare molta confusione».
Il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha avuto stamani un colloquio telefonico con Putin. Anche Michel ha chiesto a Putin di ordinare un cessate il fuoco umanitario in occasione dell’imminente Pasqua ortodossa. Ha sottolineato l’inaccettabilità della guerra condotta dalla Russia, ribadendo il sostegno incrollabile all’Ucraina e alla sua integrità territoriale. Michel ha anche esposto a Putin le perdite e gli errori di valutazione commessi secondo lui dalla Russia, anche per «penetrare il vuoto informativo che potrebbe esistere intorno a Putin», ed ha sottolineato la necessità di creare corridoi umanitari per consentire il deflusso dei civili dalle città occupate, in particolare a Mariupol. Su richiesta di Zelensky, ha anche chiesto a Putin di interagire direttamente con il presidente dell’Ucraina.
Mariupol
Volyn, comandante della 36a brigata dei Marines ucraini asserragliati nella fabbrica Azovstal, ha lanciato un appello al presidente e al cancelliere federale della Germania, Frank-Walter Steinmeier e Olaf Scholz, perché aiutino a organizzare e condurre l’evacuazione dalla città. «Più di 100 mila persone muoiono di fame. Negli scantinati, i miei soldati feriti stanno marcendo per le ferite. Artiglieria, aerei e persino la Marina continuano a spararci addosso. Mariupol può ancora essere salvata! Il mondo deve aiutarci».
Svyatoslav Palamar del battaglione Azov: «Tutti gli edifici nell’area della Azovstal sono praticamente distrutti. Hanno gettato bombe pesanti, bombe anti-bunker che provocano un’enorme distruzione. Abbiamo persone ferite e morte all’interno dei bunker. Alcuni civili sono intrappolati sotto gli edifici crollati». Le forze ucraine ancora a Mariupol sono «sufficienti per respingere attacchi» dei russi. I difensori ucraini sarebbero anche disposti a garantirsi una via di fuga, anche se la resa è fuori questione. «Quanto all’ipotesi di una resa in cambio di un’uscita in sicurezza dei civili, spero che sappiamo tutti con chi abbiamo a che fare. Sappiamo con certezza che tutte le garanzie e tutte le affermazioni della Federazione russa non valgono nulla».
Josep Borrell, alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera:
«Elogiamo l’Ucraina per i suoi sforzi volti a trovare una soluzione diplomatica per l’evacuazione dei civili e ci rammarichiamo che la Russia non stia ricambiando. L’Ue sostiene l’appello dell’Ucraina al Cremlino per consentire l’evacuazione in sicurezza dei civili di Mariupol.
È necessario creare immediatamente corridoi umanitari, con le necessarie assicurazioni di cessate il fuoco, da Azovstal e altre aree della città ad altre parti dell’Ucraina. Deve essere garantito un accesso libero e sicuro a coloro che forniscono assistenza umanitaria, in linea con i principi fondamentali dei diritti umani e il diritto umanitario internazionale.
Da settimane ormai, il mondo è testimone di un crudele assalto illegale a Mariupol da parte della Russia che ha portato alla distruzione su vasta scala della città, comprese le atrocità contro i civili, con il pretesto contorto di “liberare” la città. Migliaia dei suoi abitanti sono stati deportati in Russia o sfollati con la forza nelle aree dell’Ucraina non controllate dal governo. Nonostante la carneficina inflitta dalla Russia, a Mariupol rimangono oltre 100 mila civili, di cui un migliaio che potrebbero essersi rifugiati nell’acciaieria Azovstal, difesa alle forze armate ucraine».
Corridoi umanitari
Il sindaco di Mariupol, Vadym Boychenko, ha affermato che è necessario un giorno intero di cessate il fuoco per evacuare i civili che si rifugiano nell’acciaieria Azovstal. «L’altro ieri, abbiamo pianificato una via di evacuazione. Tuttavia, le forze russe hanno continuato a bombardare l’impianto e non siamo riusciti a far uscire le persone da lì». Inoltre, «noi abbiamo bisogno solo di una cosa, la completa evacuazione della popolazione. A Mariupol ci sono ancora circa 100mila persone».
Vice prima ministro Iryna Vereshchuk: oggi in Ucraina, «a causa del pericolo sui percorsi, non ci saranno corridoi umanitari». Rivolge anche un appello a «tutti coloro che stanno aspettando l’evacuazione: abbiate pazienza, per favore aspettate!».
Una sottile ironia?
L’Ucraina ha ufficialmente registrato l’incrociatore missilistico russo Moskva, che giace sul fondo del Mar Nero, come «sito nazionale del patrimonio culturale sottomarino». Il Moskva è affondato la scorsa settimana dopo l’esplosione di un deposito di munizioni a bordo, secondo la versione russa, mentre secondo l’Ucraina è stato colpito da un missile di Kiev.
Profughi
Onu: oltre 5,1 milioni di persone hanno abbandonato l’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. Inoltre ci sono già più di 7,7 milioni di sfollati interni in Ucraina. In totale, quasi tre ucraini su dieci sono ora sfollati o rifugiati.
Il libro del silenzio di Dio
Stiamo costruendo un percorso all’interno della dimensione biblica della sofferenza umana, un percorso che adesso sto realizzando con voi, non con testi preconfezionati.
Nel nostro viaggio troviamo continuamente dolore, individuale e collettivo. Quale risposta alla sofferenza umana possiamo cogliere dai testi biblici?
Nei libri narrativi dell’Antico Testamento, Dio ascolta il grido degli oppressi, risponde e interviene, o direttamente o per mezzo di condottieri o di profeti. Esemplare è il grido degli schiavi in Egitto che sale fino a Dio e provoca il suo intervento salvifico (Es 2,23-24). Il testo non afferma neppure che questo grido fosse fatto di parole, né che fosse indirizzato a Dio come preghiera. Qualcuno lo ha paragonato al pianto di un neonato: una segnalazione di bisogno, senza che nemmeno occorra che sia verbale e consapevole. Un grido, e basta. E Dio interviene in aiuto.
Le Lamentazioni sono l’opposto del grido degli schiavi in Egitto. In luogo del grido, nel libro delle Lamentazioni trova posto addirittura uno scritto ricercato, costituito da un numero non casuale di composizioni (un Pentateuco del dolore) costruite a loro volta con un numero preciso di versetti e, per quattro di esse, persino in ordine rigorosamente alfabetico. L’immediatezza del patire, qui, non è semplicemente gridata; è come mediata dal mezzo espressivo. Nessun altro libro biblico è redatto con altrettanta accuratezza di forma.
Una forma che però ha un senso, perché aiuta a conservare la dignità umana: la scrittura dotta diviene un modo di affrontare le avversità – e di avversità il libro delle Lamentazioni presenta una quintessenza – senza esserne distrutti. L’esternazione poetica non diminuisce lo strazio, ma aiuta a dominarlo, lo consegna alla storia, e – non ultimo – lo depone davanti al Signore.
La natura delle Lamentazioni: l’anti-Cantico
Nelle Lamentazioni l’uomo si appella a Dio, giungendo ad imputargli la sordità di chi non vuole udire. La parola di lamento e di supplica si indirizza a un Dio che si nasconde, che non risponde. Con tutto ciò, se viene interpellato è perché lo si considera un Tu che può tornare a farsi sentire. In qualche modo, nonostante la desolazione delle situazioni, le Lamentazioni sono un libro di fiducia.
Poiché l’immagine della città e del popolo è tipicamente femminile (signora tra le province, figlia del mio popolo, figlia di Sion, figlia di Giuda, figlia di Gerusalemme), ma in un contesto di derelizione e di lutto, le Lamentazioni si presentano come un anti-Cantico, in totale contrasto con il Cantico dei Cantici che invece rappresenta il trionfo dell’amore, letto da Israele come simbolo dell’amore sponsale di Dio per il suo popolo. Anche nel Cantico dei Cantici, però, è presente l’aspetto della perdita, della ricerca affannosa… Ed è questo il momento dell’angoscia, nell’attesa che l’Amato ritorni, o meglio che l’Amata possa tornare a Lui.
Il dramma dell’uomo
’Ekhah (“come?”, “come mai?”) è la parola che rappresenta il titolo del libro in ebraico. La sequenza delle quattro consonanti che la compongono, alef, yod, kaf, he, si trova per la prima volta (con differente vocalizzazione) in Genesi 3,9: ’Ayyekkah, Dove [sei]? È la domanda che Dio rivolge all’adam, all’umanità, dopo la colpa. La parola di stupito orrore con cui inizia il lamento viene originata dall’allontanamento da Dio che il peccato ha causato. Il lamento per la distruzione è generato dal dramma originario dell’uomo, impresso in ogni persona, del distanziamento da Colui che è la fonte della vita, della comunione e della felicità. Dio però sempre cerca di raggiungere l’uomo anche nel suo peccato per richiamarlo a sé. Non lo lascia mai solo.
Cerchiamo adesso di seguire il pensiero del redattore, o dei redattori del libro, secondo quanto siamo andati leggendo in questi giorni.
Uno sguardo di sintesi
Prima di tutto, siamo di fronte ad un Pentateuco del dolore. Il numero di cinque Lamentazioni (Qinoth) non è certo casuale. La struttura acrostica delle prime quattro è anche essenziale per comprendere il messaggio: è un alfabeto del dolore, o, se si considera che si procede da alef a tau, equivalente al nostro dall’A alla Zeta, una enciclopedia del dolore.
Ecco un saggio di lessico del dolore, solo per rimanere nella prima Lamentazione: Vedovanza e solitudine. Pianto e tradimento. Esilio e schiavitù. Lutto e amarezza. Oppressione e afflizione. Inedia e sfinimento. Tristi ricordi e scherno. Abominio e disprezzo. Bruttura e desolazione. Depredazione e profanazione. Fame e umiliazione. Dolore e tormento. Arsura e caduta. Vacillamento e abbattimento. Lacrime e desolazione. Ostilità e lordura. Inganno e deportazione. Angoscia e tumulto. Fremito e sconvolgimento. Spada e morte. Gemito e sciagura. Infelicità e lamento.
Vediamo adesso dove ci conducono i cinque capitoli di questo libro.
Prima Lamentazione. Bisogno di consolazione e compassione
Nella prima Lamentazione la sofferenza di una città è motivata dalla sua colpevolezza. Questo non attutisce il suo dolore. Abbiamo, così, rilevato due aspetti importanti: prima di tutto il lamento per la mancanza di un consolatore (menachem, menzionato 5 volte in questa qinah). In Is 51,12, il Consolatore è Dio nei confronti degli esuli. Il dolore è più lieve se è condiviso, se c’è chi lo consoli.
Questo ci porta alla seconda immagine, quella della com-passione. Nella cappella delle Stigmate della Verna, nella predella della grande robbiana della crocifissione, si trovano proprio scritte in latino queste parole: O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus.
Sono le parole che si trovano, in tutta la loro drammaticità, al centro della prima Lamentazione («O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore», v. 12). Devo ricordare, a questo proposito, il significato delle stigmate di San Francesco: la condivisione. Come scrisse una biografa del Santo assisiate, Maria Sticco, quando si ama qualcuno si può fare a meno di partecipare alla sua gioia, ma non si può fare a meno di partecipare al suo dolore. Quello che è il dolore di Gerusalemme, è anche il dolore di ogni uomo, che chiede compassione. «Com-passione», patire insieme. C’è, quindi, un dolore che chiama consolazione.
Seconda Lamentazione. Dio permette il male
Nella seconda Lamentazione, in una sofferenza che si fa ancora più acuta e lacerante, quello che emerge immediatamente è che la distruzione di Gerusalemme è causata dall’ira di Dio. Allora è Dio che manda il male all’uomo? Dobbiamo intendere questa azione, attribuita a Dio, nel contesto del linguaggio biblico; si tratta, infatti, di volontà di permissione, cioè del rispetto che Dio ha per la libertà umana. Dio non manda il male, ma lo permette, in un modo le cui ragioni ci sfuggono. Dio opera attraverso la storia; con una frase non biblica, potremmo dire che «Dio scrive diritto sulle nostre righe storte» (Bossuet). L’invito è sempre quello di far risuonare il lamento davanti a Dio, perché il suo amore dura per sempre. Dio non è indifferente all’uomo.
Terza Lamentazione. Dio non vuole la sofferenza. Le misericordie di Dio non sono finite
Come Giobbe, anche questo sofferente è sicuro che il suo male venga da Dio, per motivi imprecisati e forse non precisabili. Ma nel cuore dell’orante adesso c’è un pensiero: le benevolenze del Signore, le sue misericordie non sono finite. Il plurale nel quale sono declinati i termini chesed e racham ne indica la pienezza (plurale di intensità); particolarmente significativo il vocabolo rachamim che designa le viscere materne ed esprime la misericordia divina. Di più: se qualcosa di buono c’è nella vita, è proprio il Signore, parte di eredità del suo fedele; per questo risuona tre volte un buono (tov): buono è il Signore per chi spera in lui; buono è attendere in silenzio la sua salvezza; buono è per l’uomo portare un giogo dalla giovinezza.
Data quindi una condizione di sofferenza, essa va vissuta nella fede e nella fiducia e speranza nel Signore, nell’attesa paziente e silenziosa. Il silenzio era la situazione di arrivo per Giobbe, se ricordate, dopo l’esperienza di Dio fatta nella maestosità della natura: Giobbe comprende che deve liberarsi delle parole, delle tante parole con cui ha sentito dire di Dio solo per sentito dire, per affidarsi invece ad una contemplazione silenziosa. La ribellione del Giobbe dei dialoghi qui appare più facilmente superata. Questo orante comprende ben presto di dover tacere ed attendere la salvezza in silenzio, accettazione e umiltà, perché questa non mancherà. L’orante sente vicino questo Dio la cui misericordia è inesauribile; questo Signore che, se affligge, ha anche misericordia.
Quindi, appurato che la sofferenza dell’uomo viene da una non meglio precisata volontà di Dio e non da divinità capricciose o da un cieco fato come per i pagani, l’agiografo cerca di sondare più in profondità il mistero del dolore umano, asserendo che il Signore non vuole che l’uomo soffra: se l’uomo soffre, è contro il suo cuore.
E allora, perché la sofferenza? Quello che si può capire è che in certi casi è meritata, come castigo di crimini contro l’umanità (c’erano anche allora) e contro i diritti di ogni uomo: il Signore, infatti, vede. Tutto il mondo è stato creato da Lui, che come è sovrano del mondo è anche sovrano della storia: è Lui che vuole il bene e permette il male. Niente gli sfugge. Non si lamenti perciò l’uomo che può vedere nella propria sofferenza la purificazione dei propri peccati, un modo di cui Dio si serve per richiamare a Sé. È, effettivamente, una possibilità, ma non spiega affatto tutto il problema del dolore.
Il peccato di un città può essere una ribellione alla sovranità di Dio, che non è stata perdonata perché non c’è stato pentimento. Ti sei avvolto in una nube perché la preghiera non ti raggiungesse… L’immagine di Dio che si rende impenetrabile alla supplica, frapponendo tra sé e l’uomo quella stessa nube in cui egli di solito si manifesta nell’Antico Testamento, diviene straziante, più ancora delle sue conseguenze, oppressione, obbrobrio, scherno, terrore, disonore. Tuttavia è possibile il sollievo, se il Signore vedrà tutto questo. E lo vedrà, se il suo popolo farà ritorno a lui.
Il ritorno a Dio (ogni peccato è un allontanamento, una fuga: così l’allontanamento dal giardino dell’Eden, così la fuga di Caino) non è un moto di passione, che può esserci o non esserci o svanire in condizioni altalenanti, ma una decisione ferma cui tenere fede. Allora, dal profondo della sua sofferenza, l’orante sa di essere stato udito. Il Signore è il Go’el di chi si appella a lui. Con questo nome, che si può tradurre Redentore, si indica la figura del parente più prossimo che paga di persona per riscattare chi è caduto in schiavitù.
Quarta Lamentazione. La responsabilità collettiva
Nella quarta Lamentazione è chiaro che la rovina di un intero popolo è causata da precise responsabilità, quelle dei capi, sacerdoti e profeti, che hanno commesso iniquità versando il sangue del giusto. L’agiografo fa rimarcare il legame tra sofferenza (in questo caso, il disastro nazionale) e peccato: ogni peccato attira su di sé il castigo.
Benché la nostra mentalità sia individualista, e refrattaria all’idea che l’individuo debba soffrire per le colpe altrui, dobbiamo riconoscere che la colpa può avere una vasta conseguenza sullo stesso che l’ha commessa e sui suoi, perché nessuna azione è neutra, indifferente, ma ognuna ricade, in bene o in male, sugli oggetti dell’azione ed anche su chi la commette. È nell’esperienza di tutti, credo, che ci siano persone che trasmettono il bene intorno a loro, a chi viene con loro in contatto, e come ci siano, per converso, persone che si fanno portatrici di male, ne contagiano gli altri, anche involontariamente. Il male, scrisse C.S. Lewis, spesso ha bisogno solo di servi sciocchi: persone che per i motivi più disparati, anche senza intenzione, si asserviscono ad una logica diabolica di potere e di sopraffazione. Ognuno è responsabile verso gli altri, anche del male che permette che si diffonda attraverso lui.
Quinta Lamentazione. Abbiamo peccato! Facci ritornare a te
Con la quinta Lamentazione, il percorso del libro si conclude con la professione di speranza nell’eterno Signore. I versetti conclusivi implorano il pentimento, il ritorno in cui l’uomo risponde a una iniziativa divina: «Facci ritornare a te, Signore e noi ritorneremo, rinnova i nostri giorni come in antico» (Lam 5,21). Il cuore umano da solo non è in grado di farlo. L’iniziativa spetta al Signore.
Il presente, però, è carico di terrore, e l’orante registra gli abomini della guerra: la violenza alle donne, l’uccisione dei notabili, la schiavizzazione dei giovani, la fine di ogni vita civile e di ogni gioia. Non possono passare inosservate le tragiche analogie esistenti con la situazione attuale di molte città ucraine, in particolare di Mariupol, che sta patendo un duro assedio con migliaia e migliaia di vittime civili, mancanza di acqua, cibo e riscaldamento, e sta subendo – inconcepibile nel terzo millennio! – anche la deportazione.
La causa di tutto questo è vista nelle colpe dei padri le cui conseguenze sono ricadute sui figli (v. 7). Si tratta di una concezione tradizionale rifiutata dallo stesso Geremia (31,27-30) come pure da Ezechiele, profeti di questo stesso periodo: ognuno porta la pena del proprio peccato personale, non di quello dei genitori o avi. Siamo ancora nell’ambito di una concezione secondo cui la sofferenza è inviata per punire un peccato, in questo caso addirittura di altri. Al v. 16 però troviamo una correzione o integrazione: «abbiamo peccato!». La colpa dei padri, quindi, non si è semplicemente scaricata su figli innocenti, ma si è perpetuata di generazione in generazione corrompendo la città.
È possibile, a questo punto, una sintesi?
Certamente nelle Lamentazioni è presente una ricchezza assai maggiore di quanto stiamo dicendo, ma in estrema sintesi proviamo a mettere insieme alcuni tasselli.
Primo: il dolore più atroce, anche se spiegabile con una colpa, chiede consolazione e compassione.
Secondo: Dio permette il male, ma non è indifferente all’uomo.
Terzo: contro il suo cuore Dio umilia ed affligge l’uomo; la sua misericordia non si esaurisce.
Quarto: esiste una responsabilità collettiva in ciò che causa sofferenza agli innocenti.
Quinto: il ritorno a Dio è possibile, e si può sempre sperare in Lui.
Un cammino di conversione
Quello che si profila qui è un cammino di conversione; ma non è ciò che instancabilmente sostenevano gli amici di Giobbe? Superficialmente, sì. I tre amici però, rappresentanti di una teoria arcaica e superata, presupponevano costantemente la colpevolezza del sofferente; teoria demolita una volta per tutte da Giobbe e dichiarata falsa, al termine del libro, da Dio stesso (Gb 42,7). Si può tuttavia dare il caso di una società corrotta e corruttrice la cui sofferenza può rappresentare un grido di allarme: tornate al Signore!
Quindi, il percorso all’interno del libro delle Lamentazioni ci conduce ad una certezza: non ostante tutto, il Signore è vicino e dice: Non temere!